Il mondo intorno a noi

Hospital Mix

Sono in questa stanza da ore, ma potrebbero essere giorni. Ho dolori allucinanti, terribili che si irradiano dal ventre alla schiena. Onde acute mi sconquassano, vorrei urlare, vorrei che finisse presto, ma mi hanno detto che ci vorrà ancora un po’. Guardo il bambino cinese trapiantato nel vaso di terracotta, lui mi fissa senza rispondere. Poi le contrazioni si fanno sempre più vicine e forti, ma il mio bambino non ne vuole sapere di uscire da solo. La dottoressa e l’ostetrica lo aiutano e poco dopo mi depongono sul seno un piccolo essere scuro dagli incredibili occhi cinesi: forse ho guardato troppo a lungo il quadro di Anne Geddes.
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14 mesi dopo sono di nuovo in ospedale con Davide, ha una brutta polmonite. La febbre è salita di colpo e lui ha iniziato a respirare male, sempre più affannosamente. Siamo corsi qua e gli hanno subito messo la flebo e l’ossigeno. Sono seduta ai piedi del letto e lo vedo respirare a fatica. Luca è di turno, ha la notte, ma ci viene a trovare appena possibile. Io sto con Davide, la dottoressa e le infermiere ci vengono a controllare di tanto in tanto. Davide, bianco come un cencio, è immobile nel letto. Gli tengo la mano e con l’altra mi accarezzo il pancione in cui sta crescendo la sua sorellina. Parlo ad entrambi, li rassicuro dicendo che andrà tutto bene. Arriva il primario e ci comunica che se non ci saranno miglioramenti nell’arco delle prossime ore, dovranno intubare il mio bambino, la mia anima, e trasferirlo al Burlo di Trieste. Io sono pietrificata, non piango, ma probabilmente irradio paura ed angoscia. Un’infermiera si avvicina e mi abbraccia dicendomi: “Sei brava, stai dando forza a tutti quanti! Non mollare adesso…”
Davide inizia a migliorare lentamente, diventa sempre più rabbioso ed irrequieto, in poche ore torna il bambino tenacemente dolce che mi riempie la vita e io mi dico: “Ok, ho capito… essere madre non è solo gioia, ma anche dolori.” Beata ingenuità!

4 mesi dopo arriva la Princess. Stessa sala travaglio con il bambino cinese, la sala parto non lo so: non ci sono mai arrivata, perché la piccola aveva troppa fretta di nascere. La camera è tranquilla, dalle tapparelle filtra una lama di luna, lei dorme nella sua culletta con il lenzuolino rosa e sto davvero bene. Ormai noi siamo di famiglia qua e ci vengono a trovare un po’ tutti, medici ed infermieri. La baby Apollonio, nata con la camicia, è una pasticcina dal ciuffo rosso e dal nome di fiaba: Ariel.

La vedo volare, il tempo è congelato in un istante eterno: non atterra mai. La guardo salire ancora ed ancora e poi iniziare a scendere lentamente. Mi sento morire, penso milioni di cose, ma non faccio in tempo a fare nulla. Poco dopo sbatte la testa sull’erba e in un secondo sono di fianco a lei. Non perde coscienza, ma la carico in auto e la porto immediatamente in Pronto Soccorso da dove mi fanno un accesso diretto in Pediatria: là la conoscono, sanno chi è, sanno che dovranno avere molta pazienza. La tengono in osservazione, per fortuna ci sono pochi bambini, così ci danno una stanza singola e poco illuminata per evitare i sovraccarichi che potrebbero essere peggiorati dal trauma. Non vomita, è vivace, fin troppo. Mi permettono di portare alcuni giochi e di darle la Coca Cola. Se ci fermeremo per la notte, potrò prenderle la pizza. Per fortuna non è nulla di grave, l’unico strascico è l’astensione volontaria dall’altalena per qualche mese, forse le dà vertigine, forse ha paura? Chi lo sa…

È notte fonda. Suona il telefono. La nonna è appena morta, non mi capacito: l’avevo vista quella sera, aveva aperto gli occhi per un attimo e mi aveva sorriso. Non capisco: mi aveva sorriso! Vado a prendere mio padre a casa, la mamma è ricoverata nello stesso reparto, in un’altra ala. Con la nonna c’era mia sorella. Quando arriviamo, la mamma è in corridoio sulla sedia a rotelle, hanno spostato la nonna in un’altra camera per darci la possibilità di stare soli con lei, una piccola forma di rispetto per il dolore di una famiglia che ha perso una delle sue colonne portanti.
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Un ospedale è un luogo di nascita, di rinascita e, ahimè, di morte: è un muto testimone del ciclo della vita. Le mura di un ospedale, se parlassero, racconterebbero attimi di gioia e dolore, di angoscia e sofferenza, ma tutti questi momenti sarebbero accomunati da un unico denominatore: le persone.
Oggi il mondo si riempie la bocca di parole tratte dall’inglese e che spesso si riferiscono al Marketing o all’Economia Aziendale. Il Marketing Mix , ad esempio, si riferisce a quattro leve definite appunto le 4 P (*). Una buona economia aziendale si poggia sulle 3 E (**), ma queste regole non dovrebbero essere contemplate in ambito socio-sanitario: gli ospedali non dovrebbero essere valutati come sistemi produttivi, bensì come luoghi in cui la vita delle persone subisce un cambiamento.
Un buon sistema sanitario dovrebbe tutelare le 3 P che ruotano attorno ad un ospedale: Pazienti, Parenti e Professionisti.
Tutto il resto è solo Politica, una P che dovrebbe stare fuori dall’Hospital Mix.
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(*) Secondo il modello ideato da McCarthy le quattro leve del Marketing Mix sono “Product” (Prodotto), “Price” (prezzo), “Place” (Punto vendita), Promotion (Promozione).
(**) Le pubbliche amministrazioni devono operare rispettando i criteri di economicità “economy” (economicità), “effectiveness” (efficacia) ed “efficiency” (efficienza).
Il mondo intorno a noi

Accidenti al “venerdì nero”!

Rinchiusa in usa camera di ospedale, ti vedo correre da una parte all’altra della stanza. In televisione continuano a passare gli spot delle imperdibili promozioni del Black Friday, ma noi siamo rinchiuse da ormai 3 giorni. Ogni tanto ti infili le ciabatte, mi prendi per mano e mi conduci alla porta. Vuoi uscire, lo so! Te ne vuoi andare, ma non possiamo.

E’ difficile farti capire che lo stiamo facendo per il tuo bene, io stessa a volte mi chiedo se lo stiamo facendo veramente per te o per noi: la tua insondabile complessità ci spaventa e forse non siamo ancora pronti ad accettare la tua costante ricerca di libertà.

Ci caricano sull’ambulanza per andare a fare la risonanza. Non ho fatto nemmeno in tempo a mettermi le scarpe o a prendere un gioco per te.

La sala d’attesa è densa di persone, umori, suoni ed odori. Non c’è niente di più avverso per te. Non ne puoi più, per me è lo stesso. Mi sento prigioniera, rinchiusa tra queste quattro mura, mentre fuori il sole scalda la pelle, in un estremo tentativo di estate.

Ti getti a terra, urli, ti colpisci la testa furiosamente, strisci sul pavimento. Io provo ad alzarti, ma non ce la faccio più. Gli scontri tra di noi sono stati innumerevoli, ma, mentre tu ne esci sempre più arrabbiata ed aggressiva, io ne vengo lentamente consumata.

Finalmente ci vengono a chiamare: è passata un’ora e mezza da quando siamo scese. Hai lustrato tutti i pavimenti, toccato tutte le superfici, annusato tutti gli odori, la tua rabbia è un vulcano pronto ad eruttare.

Io firmo i consensi, voglio restare con te, ma papà non vuole. Mi rimanda da Davide. Povero Davide, è rimasto in sala d’attesa con la famiglia con cui dividiamo la camera da letto. Ha passato ore ed ore steso sulla poltrana della camera ad osservarci lottare con te. Sognava qualche gita ed, invece, dalla finestra della camera ha visto solo il campanile della chiesa dell’ospedale.

Tu sei fortunata ad avere un fratello così paziente ed affezionato. Sei fortunata ad avere amici e maestre che pensano talmente tanto a te da mandarti un video per sapere come stai. Quando l’ho visto mi sono messa a piangere. Era dolcissimo e mi ha fatto sentire meno sola: i tuoi amici che scrivono sulla lavagna il tuo nome; i tuoi amici che ti salutano; i tuoi amici che chiedono come stai… Tu sei fortunata, ma non te ne rendi conto. O forse sì? È difficile capirlo, in questi giorni più che mai…

Mentre nel cuore delle notte camminavamo nel parcheggio dell’ospedale, continuavo a pensare a quel video. Piangevo e mi ripetevo… “Siamo due derelitte senza speranza in pigiama e ciabatte che camminano al buio, in un ospedale deserto a 1200 km da casa e per cosa? I nostri amici, le persone che ci vogliono bene non sono qua con noi e io avrei tanto bisogno di un abbraccio.”

Ad un certo punto ti sei fermata e mi hai guardata come solo tu sai fare: di sbieco, ma dritto fino al nucleo del mio cuore; mi hai stretta forte alle gambe e poi hai ricominciato tirarmi verso l’uscita. In quel momento ho capito che non siamo senza speranza: la speranza c’è sempre, solo che a volte si nasconde. Ti ricordi quando Don Camillo viene esiliato nel paesino di montagna e non sente più la voce di Gesù finchè decide di torare a Brescello a prendere il Crocefisso? Mentre sale sul pendio innevato continua a parlare con Gesù e lui finalmente gli risponde:

“Non ho mai smesso di parlarti, ma tu non mi sentivi perché avevi le orecchie chiuse dall’orgoglio e dalla violenza”.

Ecco la mia speranza e la mia fiducia in te sono così: a volte vacillano, ma appena tu mi abbracci, tornano più forti che mai.

Finalmente ci dimettono. Festeggiamo anche noi il Black Friday: oltre all’inusule braccialetto arancione che ci ha donato il S.S.N., decidiamo di regalarci la visita al Teatro Greco e un caffè in un bar del centro. Attorno a noi, molte signore passano con le braccia piene di acquisti, ma noi siamo i più felici della città perché abbiamo sublimato il nostro venerdì nero con una perfetta lettera di dimissioni.

E il bicchiere è mezzo pieno di braccialetti arancioni e alberi carichi di frutta in un’estate che sembra non voler finire mai.