"L'amore non conosce barriere. Salta ostacoli, oltrepassa recinzioni, attraversa pareti per arrivare alla sua destinazione, pieno di speranza." – Maya Angelou
Autore: theprincessandtheautism
Mamma di Davide ed Ariel, sostenitrice del "bicchiere mezzo pieno". Penso che non siano i dolci a far ingrassare ma il senso di colpa che si prova mentre li si mangia e quindi... non offritemi mai una brioche integrale!
“Mamma, come riesci a essere così calma con tutte le cose che stai facendo tra Ariel che sclera, casa, scuola e università?” “Ti sembro calma?” “Sì.”
Inghiotto il bolo di ansia. Sorrido.
“Si chiama masking, amore mio.” “E cos’è?” “Hai presente le maschere veneziane?” “Quelle di porcellana tutte truccate?” “Sì, quelle. Ecco. Immagina di averne una sul viso tutto l’anno, anche quando non è Carnevale, e di fare vedere agli altri solo quello che vogliono vedere.” “Ma è faticoso…” “Faticosissimo, ma se mi abbracci la stanchezza se ne va.”
Mi stringe forte, ormai è alto quasi quanto me, il mio ragazzo lungo e secco. Una lacrima si ferma all’angolo dell’occhio destro.
“Piangi, mamma?” “No, tesoro, non sto piangendo: mi è andato un po’ di amore nell’occhio.”
Ne ho approfittato per sbrigare un paio di commissioni e schiarire pensieri neri che non hanno alcuna intenzione di migrare nel vespero (cit e semicit, non me ne voglia Carducci).
Stravolta e avendo bisogno di un booster di caffeina, mi sono infilata nel bar terrazzato con consumazione maggiorata di 0,50 centesimi ché quei dieci passi in più dal banco valgono quanto un metrocubo di metano. Pagamento cash alla consegna, sia mai che scappi con il bottino: un cappuccino 2 euro 30 centesimi, servizio incluso, rene asportato.
Sto per tirare un chitemmuort d’antologia quando in radiodiffusione parte la Santa Messa.
Incredula, penso sia uno scherzo dalla Orson Wells. Invece no: è proprio la Messa in diretta dal Santuario di Chinesoio, prova ne è il coro stonato dei fedeli. No, non del Professore, ma lo prendo come un segno del destino e capisco che per superare gli ultimi esami devo sfoderare l’artiglieria pesante e mi accodo: “…che ho molto peccato in pensieri, opere ed omissioni…”
Ops, ho omesso un capitolo del libro di Marini…
Funzioni esecutive impallate, capacità attentiva defunta.
Devo tornare sul compito: “… E supplico la beata sempre vergine Maria, gli angeli, i santi e voi, fratelli e sorelle, di farmi superare decentemente gli esami e i laboratori. Amen.”
Un miracolo, ecco quello che mi serve: un miracolo.
Guardo l’orologio e mi faccio due conti: se mi sbrigo riesco ad essere a casa in tempo per la Messa in diretta da Lourdes.
Immagine di una penitente priva di memoria e con funzioni esecutive impallate
Dovrei studiare e invece eccomi qua a ribadire l’ovvio: non è vero che il motto “che se ne parli bene o che se ne parli male, l’importante è che se ne parli” è sempre valido. Soprattutto se si tratta di disabilità. Soprattutto se ci si nasconde dietro alla buona fede per rifiutarsi di aprire un confronto costruttivo, perché “io lo faccio a fin di bene!”
Uno degli slogan di cui tutti si riempiono la bocca è “niente su di noi senza di noi”, ma, appena una persona con disabilità o un suo familiare dissente, viene zittita.
Mi ero ripromessa di non tornare più sulla spinosa questione dei calzini spaiati: ognuno faccia ciò che crede, però con la cognizione che non è così che si aumenta la consapevolezza sulla diversità e che una narrazione etica non può prescindere dall’autodeterminazione delle persone coinvolte. Se le persone con disabilità e le loro famiglie non si riconoscono in questa giornata, la loro volontà va rispettata.
In questi anni intere classi hanno indossato i calzini spaiati credendo di essere inclusivi e poi:
Il compagno è stato fatto trasferire, perché non riusciva a gestire le crisi etero-aggressive;
La compagna non è stata invitata alla festa di compleanno, perché “dovrebbe essere rinchiusa in manicomio” (citazione letterale);
La famiglia è socialmente isolata, poiché non può partecipare alle diverse iniziative. A volte è impossibile anche mangiare una pizza al ristorante, poiché il bambino non ha sufficienti tempi di attesa o perché l’ambiente è troppo rumoroso;
Il compagno con la mamma distratta è andato a scuola con i calzini uguali e non è stato inserito nella fotografia di gruppo, perché era troppo intonato nella giornata della diversità.
Lo confesso: a me non piace che Ariel venga paragonata ad un calzino spaiato, perché lei di spaiato non ha assolutamente nulla e francamente dopo tutti questi anni sono convinta che è finito il momento di parlare di inclusione ed è arrivato il momento di FARE inclusione.
Scopro, invece, che le maggiori barriere le costruisce chi dovrebbe essere un facilitatore.
In poche parole: mettetevi pure i calzini spaiati oggi, ma solo se domani invitate il “calzino” alla festa di compleanno, altrimenti lasciate perdere ché non abbiamo bisogno di sentirci ulteriormente discriminati e soli.
E pensare che la diversità in natura è la cosa più normale del mondo e i papaveri rossi non fanno la giornata dedicata ai papaveri bianchi: coesistono. Semplicemente.
L’autistica mannara ulula alla luna piena e ronfa nascosta dai cuscini quando il sole è ancora alto.
Lentamente si alza e, con umore variabile come la mattina di novembre che l’avvolge, si trascina a piedi nudi sul divano, dove si adagia, novella Paolina, tutta burro e brufoletti. Accende la televisione e inizia la lenta vestizione che la porterà, una volta pronta, a godere voracemente di quei tre pezzi di merenda che Antonietta voleva elargire al posto del pane.
La Mater Incoronata, chiedendosi il senso del Santo Patrono nello stato laico, e facendo l’appello di tutti gli altri Santi del calendario per il giorno di scuola mancato, la porta a prendere scarpe sbriluccicose dalla pianta larga, perché la Principess Mannara ha il piede leggiadro di Genoveffa, ché la scarpina di vetro lei non se la può permettere.
Dopo un lauto pasto a base si pepite fritte presso la M gialla, è stata portata nella Casa del Vizio, ove coccole, Coca Cola e würstel non mancano mai.
Stravaccata sul divano, guardando sul tablet il ratto preferito, con dito affusolato ordina e dispone, finché alle materne raccomandazioni
“Sii ubbidiente con la nonna”,
sfodera un sorriso sghembo e ferino e risponde agitando a destra e a sinistra l’indice:
ℕ𝕆𝕆𝕆𝕆!
Negli occhi il pensiero:
“Io sono la Princess, la Svevia è lontana e dalla Nonna regno sovrana. Tu, Mater Incoronata, va’ pure a studiare, io qui faccio ciò che mi pare. E stasera non sperare nella fortuna, tanto sai che ululerò di nuovo alla luna!”
Anzi, di più: tra i banchi dell’Università mi sento a casa, la secchiona che è in me gongola di soddisfazione tra slide e manuali, appunti, penne ed evidenziatori.
La sera, però, torno a casa stanca e molto spesso non mi preparo nemmeno da mangiare, tanto Davide e Ariel cenano dai miei.
Così preferisco passare un po’ di tempo con loro, farmi raccontare la giornata da Davide, raccontare loro la mia, leggere un libro ad Ariel.
Poi, quando finalmente si addormentano, carico una lavatrice, rassetto la cucina e, se serve, carico la lavastoviglie.
Ieri sera ero troppo stanca, ho avuto una settimana pesante, ho rinviato il tutto a stamattina. E… Sorpresa!
Ho trovato questo messaggio scritto dalla manina disprassica della Princess:
“Mamma ho scaricato e caricato la lavastoviglie”
Mi sono commossa.
Non perché ha scritto il messaggio, ovviamente sotto dettatura, ma perché la mia ragazza sta crescendo e, seppur lentamente, impara piccole autonomie che sul lungo termine avranno risvolti estremamente positivi: è molto importante che lei continui ad esercitarsi nella scrittura, ma è altrettanto e, forse anche di più, essenziale che acquisisca competenze che le consentano di non dipendere completamente da altri e che le diano la possibilità di sentirsi gratificata. Ariel è in primis una ragazzina di 11 anni e come tutti noi ha bisogno di avere un buon livello di autoefficacia per poter raggiungere altri traguardi che la portino sempre più lontano da me, per quanto le sarà possibile.
La cosa più naturale del mondo è guardare le spalle di un figlio che va avanti nella vita e quindi sto già preparando l’inserzione per quando compirà 18 anni:
“A.A.A. offresi servizio di carico e scarico della lavastoviglie con inclusa preparazione di caffè Nespresso e pop corn in microonde svolto da ragazza autistica. Si garantiscono, precisione, puntualità e poche chiacchiere. Chiamare ore pasti per definire compenso e orario. Se dovesse chiedere della Coca-Cola come acconto sul pagamento, fingetevi morti.”
Questa volta ho sbagliato. Alla grande. Ho messo la diagnosi prima della persona. Ho messo la condizione di Ariel davanti ad Ariel. Ho pensato che a ricreazione non uscisse volentieri in giardino per un fisiologico calo dell’iperattività. Ho interpretato letteralmente quella striscia per immagini come un “voglio andare a scuola”. Invece lei mi stava dicendo altro. L’ho capito solo quando l’ho vista sfogliare l’album che le hanno regalato i suoi ex compagni di classe, quelli con cui ha viaggiato per 8 anni. Non vuole andare a scuola, vuole stare con i suoi amici. Non vuole uscire a ricreazione, perché i suoi amici non ci sono più e, nonostante il grande lavoro di inclusione fatto da maestre e nuovi compagni, non ha ancora trovato una sua dimensione in classe. Avrei voluto scattare una fotografia dello sguardo malinconico della Princess da mostrare alla professionista che dice che le persone autistiche non hanno empatia, che in noi non trovano consolazione nei momenti di tristezza, perché per loro una persona vale l’altra. Invece non l’ho fatto, perché ho già sbagliato troppo. Così mi sono seduta a terra con lei e abbiamo guardato l’album insieme; poi l’ho abbracciata e le ho chiesto scusa per non avere capito e per aver dimenticato di essere sua madre, di averla guardata con gli stessi occhi di quelle persone che studiando troppo perdono di vista l’essenziale, la dimensione umana delle persone. Lei mi ha abbracciata a sua volta e mi ha dato un bacio umidiccio, mentre il mio cuore sprofondava giù, giù, giù.
***** P. S.: la professionista a cui mi riferisco non ha in carico Ariel, ma sono venuta a contatto con lei per motivi diversi.
La Princess vuole qualcosa da sgranocchiare e mi guarda con la faccia da “Ambrogia, ho voglia di qualcosa di buono!”
Apre il frigorifero, lo richiude. Apre l’antina della credenza, ci si dondola sopra un po’ con il suo gentil peso e la richiude.
Mi guarda e cerca di verbalizzare qualcosa, ma non riesce.
Prende il quaderno e cerca una cartina, non la trova, mette via il quaderno. Le do carta e penna affinché scriva ciò che vuole, ma, nonostante, i suoi sforzi non trova la parola che le serve.
Alla fine disegna. Disegna! Lei odia disegnare o colorare: la disprassia rende i suoi gesti poco accurati e Princess Perfection non può accettare disegni imprecisi.
Fatto sta che disegna questo.
Secondo voi cos’è?
Intenzionalità comunicativa e strategia comunicativa al top, ma dobbiamo riprendere la scrittura di alcuni vocaboli che consideravo come consolidati e soprattutto la logopedia: con Ariel nulla è mai definitivamente acquisito.
Questo è Pictionary spinto e il primo che indovina vince un bacetto umidiccio di Princess Ariel.
Giornate intere senza una conversazione, con Masha che canta di sottofondo e Ariel che non è serena, che piagnucola, che emette quel verso lì, quello che comincia come un miagolio e finisce con un uuuuu, un sospiro e poi un pianto di frustrazione.
Ormai riconosco tutti i suoi suoni e i pianti: ho imparato a interpretarli quando aveva pochi mesi e non ho mai smesso di adattarmi alla sua comunicazione non verbale che a volte è discreta, a volte è ferma al pianto, come un neonato, e da lì la frustrazione. Lei è cresciuta, le sue esigenze sono cambiate, ma il linguaggio non è mai arrivato e ogni richiesta le costa molta fatica.
Mi chiedo quale consapevolezza abbia di se stessa, se si rende conto di essere una ragazzina, non più una bambina, che sto invecchiando, che un giorno non potrà più abbracciarmi per addormentarsi, che non potrà poggiare il suo viso nell’incavo del mio collo, che nessuno la bacerà più sulla punta del naso per rassicurarla.
Quando io non ci sarò più, chi la amerà così tanto? L’amara e spietata risposta è: nessuno. Un fratello può amare moltissimo, ma non quanto un genitore, e lei non avrà marito e figli, una famiglia tutta sua da amare e da cui essere amata.
Spero che per quando arriverà il momento, lei sia in grado di capire che la mamma è dovuta andare via, anche se non avrebbe mai voluto lasciarla da sola, perché così è la vita, che non pensi di essere stata abbandonata, che non si senta tradita, che non si arrabbi con me, perché non potrò più fare la pace con lei sussurando: “Ti voglio bene, Princess Ariel!”, avvolgendola in un abbraccio pieno di tutto il resto che noi due sappiamo da sempre.
“Sebbene fossi preparata al fatto che avresti cambiato carattere con l’adolescenza, una volta avvenuto il cambiamento mi è stato molto difficile sopportarlo. All’improvviso c’era una persona nuova davanti a me e questa persona non sapevo più come prenderla.“
(Susanna Tamaro, Va dove ti porta il cuore)”
Un figlio adolescente è un terremoto.
Una figlia adolescente è un uragano, una tempesta in grado di lasciare dietro di sé una lunga scia di devastazione e non a caso gli americani danno nomi femminili ai cataclismi naturali più importanti.[1]
Una figlia autistica non vocale adolescente è uno tsunami, un terremoto seguito da un maremoto, un labirinto in cui si perdono le poche certezze acquisite negli anni, un cubo di Rubik: i pezzi sono sempre gli stessi, ma si incastrano ogni volta in modo diverso e tu non sai più come tornare al punto di partenza, non capisci come mai il giallo sia diventato verde e non torni più al suo posto se non scalzando un inerme rosso e creando ancora maggiore confusione.
Guardo Ariel, le gambe più lunghe, il viso meno paffuto, il collo del piede da zittire pure Alessandra Celentano forgiato da un decennio di passeggiate sulle punte: la ragazzina ha definitivamente preso il posto della bambina, anzi la sta seppellendo a colpi di porte sbattute e rabbia urlata guardandomi dritta in faccia. Se parlasse, probabilmente mi darebbe della vecchia incapace e rintronata, lo capisco da come mi guarda la ricrescita e mi sistema gli occhiali sul naso. Per lei sono la mamma, una vera rottura di scatole.
Gli adolescenti provano emozioni dicotomiche nei confronti delle figure di riferimento: il rapporto con gli adulti diviene sfidante, ma allo stesso tempo continuano a cercare il nostro sguardo per sapere se stanno prendendo la strada giusta, salvo poi sterzare all’ultimo minuto per dimostrarci di non avere più bisogno di noi, di essere sufficientemente adulti da poter decidere da soli. Ricordo il mio bisogno di una carezza e allo stesso tempo il fastidio che provavo nel ricevere consigli non richiesti dai miei genitori. Le opinioni degli amici sono più importanti di quelle dei famigliari di primo, secondo e terzo grado, soprattutto se hanno più di 20 anni.
Mio nipote e mio figlio passano rapidamente dal riso al pianto all’aggressività che, repressa fino ad un attimo prima, esplode improvvisa e devastante.
Loro sono le mie cartine tornasole, mi consolano, mi ricordano per la milionesima volta che prima dell’autismo c’è la persona, che possono cambiare le manifestazioni, ma non i sintomi, che una ragazzina di 11 anni è innanzitutto una preadolescente con un corpo e una mente in evoluzione, indipendentemente dal suo funzionamento neurobiologico.
Gli adolescenti non sono né carne né pesce, troppo grandi per essere considerati bambini, troppi immaturi per essere considerati adulti. L’adolescente medio vorrebbe essere unico, originale, ma allo stesso tempo rifugia la diversità e cerca di conformarsi alla massa.
Gli adolescenti sono egocentrici:pensano che gli occhi del mondo siano perennemente puntati su di loro è sufficiente una risatina rivolta altrove per minarne l’autostima. La goffaggine emotiva, tipica dei ragazzi timidi e socialmente immaturi, li può condurre a situazioni in cui possono essere oggetti di derisione e solo il supporto degli amici li può aiutare a rivalutare la propria immagine di sé.
Le persone autistiche, rispetto ai loro pari, vivono più spesso in una condizione di isolamento sociale (in fondo la diagnosi verte sul deficit persistente dell’interazione e comunicazione sociale) e raramente ricevono gratificazioni sociali spontanee da parte dei coetanei. Questi ragazzi, soprattutto se non presentano disabilità intellettiva, rendendosi conto del proprio isolamento, desiderano venire accolti dal gruppo e spesso di ritrovano in frustranti situazioni di derisione con conseguenti vissuti depressivi, attacchi di panico o psicosi reattive.[2]
Per Ariel non è più così. I primi anni di vita cercava di relazionarsi ai coetanei, ma mancandole gli strumenti comunicativi di base, si è progressivamente chiusa nel suo mondo, anche se permane la ricerca di relazione con bambini più piccoli di lei e con i quali è molto protettiva. A lei non interessa piacere agli altri, ma presenta tutti i sintomi di un’adolescenza incombente, con l’ulteriore aggravante di non potersi confrontare con le amiche e capire se quello che sente dentro e quello che succede fuori è normale. E da lì la rabbia, una rabbia feroce che riversa contro tutti noi e che può continuare per ore, salvo poi spegnersi all’improvviso, quasi fosse dotata di un timer interno.
Il carattere sta già diventando più mutevole, gli ormoni iniziano a pulsare, lo si vede nelle piccole cose, nei gesti, negli sguardi, negli sfregamenti e io tremo.
Penso al suo menarca con ansia: il momento più naturale per ogni donna, sta diventando il mio chiodo fisso.
Come si spiega ad una bambina con disabilità intellettiva che non deve avere paura, che quello che sta succedendo è l’inizio della vita, che in alcune civiltà è tutt’ora considerato il passaggio all’età adulta? Come potrò frenare i suoi impulsi sessuali, farle capire che lei non dovrà mai sfruttare a pieno quel dono che la rende una donna ? E più prosaicamente, come potrò farle usare adeguatamente gli assorbenti?
Mentre scrivo questo articolo, di fianco a me ho un pacco di fotografie da smistare: sono immagini di un tempo passato, di visi di neonati che divengono bambini, poi ragazzi e in alcuni casi adulti. Chissà se lei mi riconoscerà in quella bambina con i capelli ricci imbrigliati in due grossi codini da Candy Candy, prima, e in quella ragazza seria con i capelli lunghissimi e la matita bistrato, poi. Ebbene, sì, lavoreremo sul ciclo della vita per spiegare ad Ariel che tutti crescono e che il corpo cambia. Anche per le persone il cui funzionamento è diverso da quello tipico, ma il corpo, no, quello è lo stesso. E anche le emozioni.
Ariel è una persona, prima che una diagnosi. Ecco, noi neurotipici dovremmo ripetere come un mantra:
non è sempre l’autismo a parlare, molto spesso è la persona con il suo corpo, le sue emozioni, il suo carattere, la sua adolescenza.
[2] Confronta “I disturbi dello spettro autistico in adolescenza e in età adulta. Aspetti diagnostici e proposte di intervento”. A cura di Roberto Keller, ed. Erickson, 2016.
Articolo scritto per “Asperger News” e pubblicato sul numero di novembre del 2021