Questa volta ho sbagliato. Alla grande.
Ho messo la diagnosi prima della persona.
Ho messo la condizione di Ariel davanti ad Ariel.
Ho pensato che a ricreazione non uscisse volentieri in giardino per un fisiologico calo dell’iperattività.
Ho interpretato letteralmente quella striscia per immagini come un “voglio andare a scuola”.
Invece lei mi stava dicendo altro.
L’ho capito solo quando l’ho vista sfogliare l’album che le hanno regalato i suoi ex compagni di classe, quelli con cui ha viaggiato per 8 anni.
Non vuole andare a scuola, vuole stare con i suoi amici.
Non vuole uscire a ricreazione, perché i suoi amici non ci sono più e, nonostante il grande lavoro di inclusione fatto da maestre e nuovi compagni, non ha ancora trovato una sua dimensione in classe.
Avrei voluto scattare una fotografia dello sguardo malinconico della Princess da mostrare alla professionista che dice che le persone autistiche non hanno empatia, che in noi non trovano consolazione nei momenti di tristezza, perché per loro una persona vale l’altra.
Invece non l’ho fatto, perché ho già sbagliato troppo.
Così mi sono seduta a terra con lei e abbiamo guardato l’album insieme; poi l’ho abbracciata e le ho chiesto scusa per non avere capito e per aver dimenticato di essere sua madre, di averla guardata con gli stessi occhi di quelle persone che studiando troppo perdono di vista l’essenziale, la dimensione umana delle persone. Lei mi ha abbracciata a sua volta e mi ha dato un bacio umidiccio, mentre il mio cuore sprofondava giù, giù, giù.
*****
P. S.: la professionista a cui mi riferisco non ha in carico Ariel, ma sono venuta a contatto con lei per motivi diversi.
Ciao Queen. Mi dispiace per la triste situazione che state vivendo tu e la Princess.
P.S. Anch’io ho avuto a che fare con una “professionista” del genere. Mi sono sentito malissimo.
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Spero fosse allo un attimo di smarrimento dato dall’emozione del contesto e che prima o poi torni in sé… Spero…
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