Otto anni fa Davide aveva 2 anni e Ariel 8 mesi.
Otto anni fa avevo la famiglia perfetta: un marito sereno, la coppietta maschio e femmina, uno per la mamma e una per il papà, lui moro e lei bionda.
Otto anni fa non conoscevo l’autismo, ma in questa foto non sono felice.
Otto anni fa avevo tutto e non lo sapevo.
Oggi ho tutto e ne sono consapevole. Certo, Ariel non avrà una vita “convenzionale”, ma non è detto che, invece, Davide l’avrà o che la vorrà.
Oggi li guardo dormire abbracciati e, se credessi ancora in Dio, lo ringrazierei per ogni buona giornata trascorsa senza crisi o battaglie.
Oggi ho la famiglia perfetta, perfettamente imperfetta, ma è la mia famiglia e io la amo.
Oggi guardo Ariel è so che lei è il tutto: lei è semplicemente Ariel, la miglior Ariel possibile, nelle sue giornate buone e in quelle dolorose, quando sorride e quando urla di dolore, quando vorrebbe parlare e non riesce, quando si stupisce di se stessa per una parola inaspettata, una meteora vocale che poi mi viene a pungolare di notte, facendomi ricordare ciò che sarebbe dovuto essere, ma non è.
Oggi ogni suo progresso è una rinascita per tutti noi, ogni sua sofferenza è dolore che strappa le viscere, che sento come se stesse succedendo a me e che mi lascia senza fiato.
L’autismo e le sue comorbidità non sono state una benedizione, ma Ariel lo è, lei è una benedizione!
E quindi?
Qual è il senso di tutto questo?
Non ho mai studiato filosofia, ma sono certa che qualcuno ha già pronunciato la sua teoria su questo modo di affrontare la gioia e il dolore, la vita e la fatica, il bello ed il brutto.
Io ho la mia teoria: si chiama AMORE.
