"L'amore non conosce barriere. Salta ostacoli, oltrepassa recinzioni, attraversa pareti per arrivare alla sua destinazione, pieno di speranza." – Maya Angelou
Ecco i saltimbanchi delle istituzioni che per la loro vanità esigono la presenza dei genitori delle persone autistiche ai convegni dimostrando di non avere assolutamente compreso le difficoltà delle famiglie.
Sopra le vostre teste volteggiano le associazioni che cercano di ritagliarsi uno spazio proponendo ricchi premi e cotillon ai primi 5000 iscritti.
Sfilano i marciatori in blu che camminano tanto, vanno ovunque, ma rigorosamente senza figli (o nipoti) al seguito, perché sono difficili da gestire e potrebbero rovinare i festeggiamenti della giornata.
Gli attivisti neurodivergenti ci deliziano con iniziative contro il puzzle e il blu, perché non scelti da loro. Rispondono i genitori con una piramide umana a difesa delle loro conquiste sociali che pure chi non ama il blu usa a piene mani.
Scorre ora sul maxischermo la pubblicità progresso vincitrice del PREMIO PER LO STEREOTIPO SULL’AUTISMO: non paga delle reazione suscitate lo scorso anno, la RAI reitera la messa in onda dello spot “progresso” con le gemelle in bianco e blu di cui una letterata, ovviamente neurotipica, e l’altra genio della matematica, ovviamente autistica.
Il palinsesto prosegue con il film THE SPECIALS, che già dal titolo fa salire il reflusso a chi da anni cerca di sdoganare un certo tipo comunicazione e scopre che la visione discriminante della disabilità è ancora un caposaldo della società italiana.
Chiudono la porta del carrozzone una Queen spettinata e una Princess smutandata: in fondo il 2 aprile è la fiera delle vanità e un posticino lo troveremo pure noi, no?
Chiedo scusa se mi sono dimenticata di qualcuno, tipo i professionisti che tengono i piedi in più scarpe e condividono post di tutti pur di poter linkare le proprie offerte lavorative, o i parenti che spariscono per 364 giorni, ma il 2 aprile sono i primi ad infilarsi la t-shirt blu pur di guadagnare un like sui social-
Con questo post conto di perdere almeno un 20% di contatti, non scardinate le mie convinzioni dimostrando di saper essere ironici e di essere d’accordo con me, non so se potrei reggere tanta emozione.
Quando ero incinta di Ariel e fino al momento della sua diagnosi, sognavo per lei una vita fatta di prime volte tipiche. Quasi nessuna di esse si è realizzata. In compenso ho una vita al cardiopalma con una ragazzina dal comportamento mutevole come il vento.
In questi giorni ho vissuto l’ennesima non-prima volta: l’acquisto del suo primo top intimo. L’ho fatto da sola: ho cercato i tessuti più morbidi e ho tolto tutte le etichette, ma è solo l’ultima cosa fatta per la Princess di una lunga lista di cui a lei non importa nulla.
Mi è nuovamente mancata quella complicità madre-figlia che tanto sognavo anni fa.
Lei cresce, il suo corpo cambia forme, ma agli occhi del mondo sembra sempre una bambina, invece di una ragazzina di 11 anni.
E io soffro.
Soffro per lei, perché io so quanto vale, quanto è intelligente e affettuosa e mi dispiace che questa conoscenza stia diventando sempre più ristretta alla cerchia famigliare.
Me lo avevano detto: non resterà piccola per sempre e le persone cambieranno atteggiamento nei suoi confronti, farà meno tenerezza e i compagni di scuola si allontaneranno naturalmente.
Così si passa ai due poli di chi la tratta come se fosse ancora una bambina piccola e di chi la guarda con paura quando fa una stereotipia improvvisa, perché ormai il suo comportamento si discosta troppo dal suo fisico da pre-adolescente.
Avere la consapevolezza che la vita di mia figlia disabile è degna di essere vissuta tanto quanto quella di mio figlio, aiutarla a raggiungere la maggior autonomia possibile e ad essere la miglior se stessa possibile, gioire per i suoi traguardi raggiunti, è cosa ben diversa dal ritenermi fortunata perché ci saranno molte altre prime volte “atipiche” che, visti i precedenti di difficile gestione, mi instillano più ansia pulsante che gioiosa aspettativa.
Oggi, con il 2 aprile alle porte, mi sento egoisticamente portata a dire che, sì!, sono fortunata visto che ho due figli che, nonostante la mia imperfezione e i miei errori, mi amano moltissimo, ma sono incazzata da morire perché Ariel non potrà mai fare le cose più naturali del mondo quali studiare una poesia a memoria, dare il primo bacio, soffrire per il primo amore, fare l’amore, prendere un caffè con le amiche, cercare lavoro, lasciare il nido famigliare, provare un abito da sposa anche solo per curiosità, avere figli da aspettare alzata e poi nipoti da viziare…
Alle persone che vorrebbero tappare la bocca ai genitori degli autistici gravi (e intenzionalmente dico “gravi”, così anche i non addetti ai lavori mi capiscono, ché le parole sono importanti, ma far comprendere le cose lo è di più) e che vorrebbero essere i tutor delle nostre meravigliose creature, ricordo che affidare un figlio a qualcuno è il massimo atto di fiducia che un genitore possa fare.
La fiducia va conquistata giorno dopo giorno, dimostrando preparazione, rispetto, equilibrio, attitudine, affetto, cura per le necessità di quel figlio.
Prima di dire: “Affidaci tuo figlio: noi sappiamo cosa fare con lui, perché siamo autistici come lui!”, dovete guadagnarvi la nostra fiducia.
E cercando di zittirci dimostrate di non essere inclusivi con chi è diverso da voi: la diversità è multidimensionale e multidirezionale e visto che la neurodiversità è data dal funzionamento neurobiologico di tutti noi, anche noi genitori meritiamo lo stesso rispetto che pretendete da noi. Anche io, donna, di mezza età, eterosessuale, neurotipica e quindi priva di un cavolo di giornata dell’orgoglio da celebrare, ho il diritto e il dovere di parlare a nome della figlia, perché io vivo con lei fin dal suo primo respiro e vivrò con lei fino al mio ultimo respiro, amandola un giorno dietro l’altro con tutta me stessa, anche nei momenti più bui, suoi e miei.
E questo mi dà sicuramente lo stesso diritto di parlare di chi ha un funzionamento neurobiologico che potrebbe essere simile al suo, ma al quale manca tutta la parte esperienziale condivisa in questi 3952 giorni di vita e amore con lei.
Io non starò mai zitta, non vi lascerò mai la parola se vorrete essere un passo davanti a me, perché lo sareste anche davanti ad Ariel e lei ha gli stessi vostri diritti a essere rappresentata. Dalla mia voce, non solo dalle vostre. Voi parlate per voi, io parlo per lei, ognuno parli per sé e del proprio vissuto senza estenderlo a tutti e, forse, lavorando insieme riusciremo a costruire un futuro migliore. Forse.
Bon.
Adesso vado a cercare di convincere la Princess a indossare un top intimo che ha già cercato di usare a mo’ di perizoma…
Inizio a sperare che abbia preso da me e che il reggiseno le serva solo come fionda per tirare le arance al Carnevale di Ivrea.
Buon weekend a tutti, attivisti e non, e che il 2 aprile passi senza ulteriori vittime visto che il buon senso è già stato sterminato da sterili polemiche da social.
Ho pensato a lungo ad un incipit che facesse presa e che fosse morbido, nonostante lo stato d’animo che mi sto trascinando da una settimana. Ho smussato questo post il più possibile, ma in alcuni passaggi è ancora affilato come il bisturi con cui mi hanno dissezionato l’anima.
Alla fine ho deciso di usare la tecnica della ceretta: uno strappo secco e via!
Lo dirò quindi con parole mie: questo per me è stato il peggior 2 aprile di sempre. Negli ultimi anni c’è stato un costante imbarbarimento ed inasprimento dei toni che mi ha fatto più volte pensare di mollare tutto, ma quest’anno spero di aver toccato il fondo, perché se si dovesse scendere ancora più in basso dovremmo tutti dotarci di attrezzatura da palombari.
Confesso che negli ultimi 24 mesi ogni post scritto sull’autismo, temendo le critiche feroci di chi la pensa diversamente da me, mi ha dato un’ansia crescente. In certi frangenti mi rendo conto di capire Kurt Cobain quando scriveva: “a volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco”.
Le continue polemiche mi stanno togliendo il piacere della scrittura e questo è peggio di un pugnale nel cuore per chi come me scrive per trovare un baricentro esistenziale.
Non mi piacciono i riflettori, sono una persona schiva che si è messa in gioco per sua figlia. Vi svelo un segreto: non sono una stronza, non mando la gente a fanculo, nemmeno quando se lo meriterebbe, ma cerco sempre di comprendere e di rispondere con la cortesia che vorrei ricevere da chi la pensa diversamente da me.
Non mi autospammo, non faccio nemmeno post pubblici, li rendo tali solo quando mi viene chiesto perché la mia bassostima è il metro con cui mi approccio al mondo. Li riporto sul blog (oddio blog, che poi sembra chissà cosa…) solo per averli tutti in ordine cronologico senza i post cazzari che scrivo ogni tanto per sdrammatizzare le vicissitudini del quotidiano, perché non di sole lacrime vive la donna.
Intervengo poco nei gruppi di autismo, siano essi di genitori o di persone autistiche: ci vuole delicatezza per non ferire chi sta già soffrendo, sono necessarie saggezza e lungimiranza per supportare chi sta attraversando un momento di difficoltà e io temo sempre di essere banale o di ferire inavvertitamente qualcuno. Quindi leggo, rifletto e spesso imparo.
Quando partecipo alle conversazioni sull’autismo cerco di essere rispettosa di tutte le parti in causa, non uso toni offensivi e accolgo le opinioni diverse dalle mie.
Ho fatto molti errori e non li voglio giustificare con la neve dell’amore: non rinnego nulla, sebbene non mi possa dire pienamente soddisfatta del mio percorso nel mondo dell’autismo. 7 anni fa non ne sapevo nulla e mi sono approcciata con umiltà a coloro che lo vivevano da più tempo di me. Ad onor del vero ne so poco pure adesso: ogni volta che leggo, studio, certo di capire, mi rendo conto che sono ancora lontana da una vera consapevolezza ed è per questo che il 2 aprile ho deciso di farmi da parte, di lasciar parlare chi l’autismo lo vive da dentro.
Dallo scorso weekend sulle spalle un pesante bagaglio di disillusione e amarezza: la settimana era già iniziata malissimo con un’assurda campagna informativa in cui venivano associati autismo e Covid. Uno di quei casi in cui, sebbene l’amore abbia dato la spinta iniziale e le buone intenzioni il carburante, la comunicazione completamente priva di etica ha fatto guadagnare a questa iniziativa il primo premio delle iniziative da dimenticare. La banalizzazione della generalizzazione e la mancanza di rispetto per le persone autistiche che hanno espresso dissenso non hanno avuto davvero scusanti.
Per non parlare della campagna della Fondazione Italiana Autismo: tra la retorica stantia della bambina geniale in matematica e con predisposizione per la musica e la “sfida” dell’urlo, mi chiedo se abbiano mai avuto a che fare con le diverse sfumature dell’autismo o se siano fermi alla narrazione di dieci anni fa.
Genitori, istituzioni, associazioni: quando parliamo di autismo dobbiamo essere più etici e rispettosi delle opinioni delle persone autistiche, fare tesoro delle loro esperienze e ascoltare le loro opinioni. Potremo anche non essere d’accordo, ma è un loro diritto autorappresentarsi e dissentire da talune nostre iniziative, ma non per questo abbiamo il diritto di silenziare le loro voci.
Credo fermamente in questo, nonostante tutto quello che mi è stato detto nei giorni scorsi.
Alcune persone autistiche, nonostante abbia costantemente chiesto voce per tutti loro, mi hanno trattata come una persona da denigrare o un nemico da offendere.
Ora mi rivolgo a voi, membri della comunità autistica.
Mi avete dato della “mamma coraggio”, mentre cercavo esprimere la mia opinione come madre di una persona autistica che non si potrà autorappresentare.
Mi avete detto che la comunità autistica ha diritto di autorappresentarsi e che noi genitori possiamo intervenire, ma che voi avete il diritto di precedenza… E che è? Una rotatoria? E le persone autistiche come mia figlia? Loro non hanno diritto di essere rappresentate da chi le conosce e ama da sempre? Non ho ben capito: sono la tutrice legale di Ariel, se le succede qualcosa o combina qualcosa, ne rispondo civilmente e penalmente, ma non posso dire la mia opinione sulla simbologia dell’autismo?
No, non posso, “perché io l’autismo non lo vivo in prima persona”. Fantastico.
La prossima volta che Ariel non dormirà, le terrete voi la mano mentre parla alla luna?
Quando avrà un meltdown, le proteggerete voi la testa affinché non si sfondi il cranio contro il muro?
Le metterete voi i cerotti sulle dita che continua a mordere fino alla carne viva?
Quando dovrà fare un tampone, le terrete voi le gambe e aspetterete seduti fuori dalla porta che lo shutdown passi, trattenendo il fiato ad ogni suo sospiro?
Le insegnerete voi ad usare gli assorbenti e pulirete voi i disastri che sicuramente farà in giro per casa, almeno i primi tempi?
Andrete voi dai vari Direttori a pietire una presa in carico?
Ah, lo avete già fatto per i vostri figli? Fantastico… Allora siete prevenuti nei miei confronti solo perché ho un funzionamento neurobiologico diverso dal vostro?
Mi avete citato il mansplaining[1] per farmi intendere che una madre neurotipica non deve parlare di autismo, soprattutto non deve permettersi di parlare di suprematismo quando le sue opinioni vengono minimizzate da un “noi abbiamo il diritto di precedenza”. Figo! E io che credevo che una narrazione corale riuscisse a mettere in luce tutte le sfumature di una diversità così complessa e articolate e a togliere l’autoreferenza che si trova in tutti i racconti in prima persona. Pure i terapisti a volte chiedono di parlare con i congiunti dei pazienti per riuscire ad avere una visione più globale, ma nel mondo dell’autismo, no! Nell’autismo conta solo una voce: la vostra. Credo ancora che le vostre istanze debbano essere ascoltate, ma a questo punto, lo ammetto, mi dispiace di aver rifiutato la presenza alle iniziative che mi erano state proposte per lasciarvi spazio. Mi avete lasciato intendere di essere comunque una scheggia nell’arcobaleno infinito della vostra comunità.
A proposito… Non vi piace il puzzle blu? Volete l’infinito con i colori dello spettro? Bene, capisco il vostro punto di vista e sebbene non lo condivida (per motivi puramente razionali, non emozionali, quindi più facili da scardinare se si trovano le giuste argomentazioni), qualora la maggioranza delle parti in causa lo scegliesse, mi adeguerei ad esso, purché si potesse finalmente andare oltre al simbolo e tornare al messaggio: una famiglia vestita di blu non lo fa perché è bello essere tutti uguali con la divisa dei puffi, lo fa per amore. Sul mio profilo personale ho pubblicato una fotografia che ha un valore personale inestimabile: vi è ritratta tutta la mia famiglia, pronta a partire per la “Marcia in blu”. L’ultima volta che ero riuscita a riunire tutti era stato per il battesimo di Ariel: quel 2 aprile di 4 anni fa fu ed è tutt’ora un giorno davvero importante per me, il simbolo dell’immenso amore di cui la Princess è circondata. Da qualche parte ho letto una madre inneggiare alla propria neodiagnosi di autismo “così il figlio non sarà più solo”. Pensate un po’… Ariel è l’unica persona autistica della mia famiglia, ma non è sola: tutte quelle persone vestite di blu la amano fuori misura e darebbero la loro vita per lei.
Capisco che la simbologia sia importante per voi, per me non lo è altrettanto, non solo in riferimento all’autismo, ma in generale: per me IL SIMBOLO NON PUÒ ESSERE PIÙ IMPORTANTE DEL MESSAGGIO. È come lottare per avere il crocefisso nelle aule e poi votare Salvini, perché non si vogliono gli extracomunitari. E il messaggio di amore di quel crocefisso dov’è? Sul fondo del mare?
Quindi, ok, usiamo tutti il simbolo che volete e adesso dedichiamoci ai problemi che quotidianamente affrontano le persone autistiche e le loro famiglie: la diagnosi e la presa in carico precoce, la formazione di professionisti preparati e rispettosi delle caratteristiche peculiari delle persone a loro affidate, l’inserimento nel mondo del lavoro, il dopo-di-noi, l’isolamento e lo stigma sociale sia diretto che “di riflesso”[2], la mancanza di un censimento nazionale sulla popolazione autistica e potrei continuare per giorni…
I “bene, finalmente i genitori si stanno stancando, così possiamo ricostruire” dimostrano che non avete ancora capito le dinamiche che muovono le istituzioni e coloro che non vivono l’autismo.
Volete distruggere per costruire? Bene, fate pure, ma siate certi di avere sufficienti risorse, energie e forza per far fronte al lavoro immane che vi aspetta: se fossi in voi farei una SWOT analysis[3] ottimizzando i tempi e le risorse già presenti ed eliminando solamente le parti disfunzionali, ma io sono solo una neurotipica poco razionale che ha dedicato il suo ultimo anno all’illusione di un ponte su cui alla fine è stata bullizzata, derisa e isolata.
Come? Ah, così provo quello che provate voi da sempre? Complimenti: non c’è niente di più squallido della vittima che diventa il bullo di chi le tende una mano.
E con questo chiudo i miei primi 7 anni nell’autismo, per i prossimi 7 mi troverete ancora qua a scrivere i miei post pieni di retorica da madre coraggio e a chiedere che ascoltino la voce di tutte le parti in causa: genitori, persone autistiche, professionisti. Anche se non condivido il vostro pensiero, soprattutto se non lo condivido, perché le prospettive diverse da cui partiamo ci potrebbero far crescere reciprocamente, se solo fossimo sufficientemente lungimiranti da ascoltarci senza pregiudizi e senza intenti manipolatori. Come disse Voltaire: “Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”.
Che sia chiaro: non ho nulla di personale contro nessuno, ma sono davvero stanca, demoralizzata e delusa da taluni comportamenti presenti in entrambi gli schieramenti. Questo è davvero il derby più triste d’Italia.
Volete continuare a farvi la guerra per i simboli? Fate pure, but not in my name.
E tantomeno in quello di mia figlia, tanto noi due abbiamo già il nostro simbolo.
Love and peace, amici, love and peace.
Nell’immagine il simbolo che ho creato per me ed Ariel e che diventerà il nuovo logo del blog e della pagina Facebook: rappresenta un abbraccio con i nostri cuori al centro.
[1] Atteggiamento paternalistico di alcuni uomini che commentano o spiegano a una donna, “qualcosa di ovvio, oppure qualcosa di cui lei è esperta, perché pensano di saperne sempre e comunque più di lei oppure che lei non capisca davvero”. (fonte https://www.ilpost.it/2016/11/21/mansplaining/)
[2] Le famiglie di persone disabili spesso sperimentano in modo indiretto molte delle pratiche discriminatorie di cui sono soggetti i figli. I genitori in altre parole, fanno esperienza delle dimensioni psico-emozionali del disabilismo , accomodano il loro comportano a seconda delle reazioni altrui e imparano a interiorizzare l’oppressione vissuta dai figli. (vedi Pinguini nel deserto, Alice Scavarda, paragrafo 4.2, ed. Il Mulino).
[3] SWOT analysis: matrice per la valutazione strategica usato per valutare i punti di forza (Strengths), di debolezza (Weaknesses), le opportunità (Opportunities) e le minacce (Threats) per un’impresa, un progetto o in ogni altra situazione in cui un’organizzazione o un individuo debba svolgere una decisione per il raggiungimento di un obiettivo, valutando gli aspetti positivi, riducendo le possibilità di fallimento, capendo cosa deve essere implementato e cosa eliminato.
Non credevo che Ariel ne fosse affetta. Me lo avevano detto molti, ma io non ci credevo, non sembrava possibile ed invece…
Dovendo attraversare la strada, le ho detto di darmi la mano “perché si attraversa sulle strisce”.
E niente, eccola lì a fare passi da gigante per rimanere esattamente al centro delle strisce bianche.
Ho così scoperto che anche la Princess soffre di interpretazione letterale del linguaggio: finora non ne avevo avuto prove e da oggi dovrò fare ancora più attenzione a non usare modi di dire.
Per il 2 aprile, Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, vorrei un regalo: bandite la definizione “affetto da autismo” e “soffre di autismo” dai vostri vocabolari e, se avete qualche dubbio, leggete “In altre parole” del mio amico Fabrizio Acanfora, fonte inesauribile di etica comunicativa.
Io domani mi terrò lontana dai social, non perché sia contraria al 2 aprile o al blu, anzi!, è uno dei miei colori preferiti e lo avrei scelto indipendentemente da Autism Speaks, ma perché ho le palle piene di polemiche su ogni cosa che riguardi l’autismo. Lo dissi un anno fa e lo ripeto oggi: scegliamo un colore insieme, senza pregiudizi, date la possibilità di esprimersi a tutte le voci in campo, finiamola di fare il processo alle intenzioni delle persone e cerchiamo di trovare degli obiettivi comuni a tutta la popolazione autistica, consapevoli che questa potrebbe essere la parte più difficile dato che persone come Ariel hanno e avranno sempre esigenze diverse da quelle di persone come Giovanni Allevi (visto che adesso va di moda) e che un buon advocate dovrebbe pensare a tutti e non solo in chi si riconosce. E la ramanzina vale per tutti coloro che parlano di voi e noi, indipendentemente dal funzionamento neurobiologico.
In due parole: ci leggiamo il 3 aprile e fino ad allora, fate i bravi, perché la mia delusione sta toccando abissi più profondi della Fossa delle Marianne.
P. S. per tutti coloro che al momento della distribuzione dell’ironia erano in fila per la cazzimma: nell’incipit ho usato “affetta” e “soffre di” in maniera provocatoria.
Nella fotografia due bambini che si danno una mano ad attraversare le difficoltà della vita, mentre noi adulti litighiamo.