"L'amore non conosce barriere. Salta ostacoli, oltrepassa recinzioni, attraversa pareti per arrivare alla sua destinazione, pieno di speranza." – Maya Angelou
L’autistica mannara ulula alla luna piena e ronfa nascosta dai cuscini quando il sole è ancora alto.
Lentamente si alza e, con umore variabile come la mattina di novembre che l’avvolge, si trascina a piedi nudi sul divano, dove si adagia, novella Paolina, tutta burro e brufoletti. Accende la televisione e inizia la lenta vestizione che la porterà, una volta pronta, a godere voracemente di quei tre pezzi di merenda che Antonietta voleva elargire al posto del pane.
La Mater Incoronata, chiedendosi il senso del Santo Patrono nello stato laico, e facendo l’appello di tutti gli altri Santi del calendario per il giorno di scuola mancato, la porta a prendere scarpe sbriluccicose dalla pianta larga, perché la Principess Mannara ha il piede leggiadro di Genoveffa, ché la scarpina di vetro lei non se la può permettere.
Dopo un lauto pasto a base si pepite fritte presso la M gialla, è stata portata nella Casa del Vizio, ove coccole, Coca Cola e würstel non mancano mai.
Stravaccata sul divano, guardando sul tablet il ratto preferito, con dito affusolato ordina e dispone, finché alle materne raccomandazioni
“Sii ubbidiente con la nonna”,
sfodera un sorriso sghembo e ferino e risponde agitando a destra e a sinistra l’indice:
ℕ𝕆𝕆𝕆𝕆!
Negli occhi il pensiero:
“Io sono la Princess, la Svevia è lontana e dalla Nonna regno sovrana. Tu, Mater Incoronata, va’ pure a studiare, io qui faccio ciò che mi pare. E stasera non sperare nella fortuna, tanto sai che ululerò di nuovo alla luna!”
Anzi, di più: tra i banchi dell’Università mi sento a casa, la secchiona che è in me gongola di soddisfazione tra slide e manuali, appunti, penne ed evidenziatori.
La sera, però, torno a casa stanca e molto spesso non mi preparo nemmeno da mangiare, tanto Davide e Ariel cenano dai miei.
Così preferisco passare un po’ di tempo con loro, farmi raccontare la giornata da Davide, raccontare loro la mia, leggere un libro ad Ariel.
Poi, quando finalmente si addormentano, carico una lavatrice, rassetto la cucina e, se serve, carico la lavastoviglie.
Ieri sera ero troppo stanca, ho avuto una settimana pesante, ho rinviato il tutto a stamattina. E… Sorpresa!
Ho trovato questo messaggio scritto dalla manina disprassica della Princess:
“Mamma ho scaricato e caricato la lavastoviglie”
Mi sono commossa.
Non perché ha scritto il messaggio, ovviamente sotto dettatura, ma perché la mia ragazza sta crescendo e, seppur lentamente, impara piccole autonomie che sul lungo termine avranno risvolti estremamente positivi: è molto importante che lei continui ad esercitarsi nella scrittura, ma è altrettanto e, forse anche di più, essenziale che acquisisca competenze che le consentano di non dipendere completamente da altri e che le diano la possibilità di sentirsi gratificata. Ariel è in primis una ragazzina di 11 anni e come tutti noi ha bisogno di avere un buon livello di autoefficacia per poter raggiungere altri traguardi che la portino sempre più lontano da me, per quanto le sarà possibile.
La cosa più naturale del mondo è guardare le spalle di un figlio che va avanti nella vita e quindi sto già preparando l’inserzione per quando compirà 18 anni:
“A.A.A. offresi servizio di carico e scarico della lavastoviglie con inclusa preparazione di caffè Nespresso e pop corn in microonde svolto da ragazza autistica. Si garantiscono, precisione, puntualità e poche chiacchiere. Chiamare ore pasti per definire compenso e orario. Se dovesse chiedere della Coca-Cola come acconto sul pagamento, fingetevi morti.”
Questa volta ho sbagliato. Alla grande. Ho messo la diagnosi prima della persona. Ho messo la condizione di Ariel davanti ad Ariel. Ho pensato che a ricreazione non uscisse volentieri in giardino per un fisiologico calo dell’iperattività. Ho interpretato letteralmente quella striscia per immagini come un “voglio andare a scuola”. Invece lei mi stava dicendo altro. L’ho capito solo quando l’ho vista sfogliare l’album che le hanno regalato i suoi ex compagni di classe, quelli con cui ha viaggiato per 8 anni. Non vuole andare a scuola, vuole stare con i suoi amici. Non vuole uscire a ricreazione, perché i suoi amici non ci sono più e, nonostante il grande lavoro di inclusione fatto da maestre e nuovi compagni, non ha ancora trovato una sua dimensione in classe. Avrei voluto scattare una fotografia dello sguardo malinconico della Princess da mostrare alla professionista che dice che le persone autistiche non hanno empatia, che in noi non trovano consolazione nei momenti di tristezza, perché per loro una persona vale l’altra. Invece non l’ho fatto, perché ho già sbagliato troppo. Così mi sono seduta a terra con lei e abbiamo guardato l’album insieme; poi l’ho abbracciata e le ho chiesto scusa per non avere capito e per aver dimenticato di essere sua madre, di averla guardata con gli stessi occhi di quelle persone che studiando troppo perdono di vista l’essenziale, la dimensione umana delle persone. Lei mi ha abbracciata a sua volta e mi ha dato un bacio umidiccio, mentre il mio cuore sprofondava giù, giù, giù.
***** P. S.: la professionista a cui mi riferisco non ha in carico Ariel, ma sono venuta a contatto con lei per motivi diversi.
La Princess vuole qualcosa da sgranocchiare e mi guarda con la faccia da “Ambrogia, ho voglia di qualcosa di buono!”
Apre il frigorifero, lo richiude. Apre l’antina della credenza, ci si dondola sopra un po’ con il suo gentil peso e la richiude.
Mi guarda e cerca di verbalizzare qualcosa, ma non riesce.
Prende il quaderno e cerca una cartina, non la trova, mette via il quaderno. Le do carta e penna affinché scriva ciò che vuole, ma, nonostante, i suoi sforzi non trova la parola che le serve.
Alla fine disegna. Disegna! Lei odia disegnare o colorare: la disprassia rende i suoi gesti poco accurati e Princess Perfection non può accettare disegni imprecisi.
Fatto sta che disegna questo.
Secondo voi cos’è?
Intenzionalità comunicativa e strategia comunicativa al top, ma dobbiamo riprendere la scrittura di alcuni vocaboli che consideravo come consolidati e soprattutto la logopedia: con Ariel nulla è mai definitivamente acquisito.
Questo è Pictionary spinto e il primo che indovina vince un bacetto umidiccio di Princess Ariel.
Giornate intere senza una conversazione, con Masha che canta di sottofondo e Ariel che non è serena, che piagnucola, che emette quel verso lì, quello che comincia come un miagolio e finisce con un uuuuu, un sospiro e poi un pianto di frustrazione.
Ormai riconosco tutti i suoi suoni e i pianti: ho imparato a interpretarli quando aveva pochi mesi e non ho mai smesso di adattarmi alla sua comunicazione non verbale che a volte è discreta, a volte è ferma al pianto, come un neonato, e da lì la frustrazione. Lei è cresciuta, le sue esigenze sono cambiate, ma il linguaggio non è mai arrivato e ogni richiesta le costa molta fatica.
Mi chiedo quale consapevolezza abbia di se stessa, se si rende conto di essere una ragazzina, non più una bambina, che sto invecchiando, che un giorno non potrà più abbracciarmi per addormentarsi, che non potrà poggiare il suo viso nell’incavo del mio collo, che nessuno la bacerà più sulla punta del naso per rassicurarla.
Quando io non ci sarò più, chi la amerà così tanto? L’amara e spietata risposta è: nessuno. Un fratello può amare moltissimo, ma non quanto un genitore, e lei non avrà marito e figli, una famiglia tutta sua da amare e da cui essere amata.
Spero che per quando arriverà il momento, lei sia in grado di capire che la mamma è dovuta andare via, anche se non avrebbe mai voluto lasciarla da sola, perché così è la vita, che non pensi di essere stata abbandonata, che non si senta tradita, che non si arrabbi con me, perché non potrò più fare la pace con lei sussurando: “Ti voglio bene, Princess Ariel!”, avvolgendola in un abbraccio pieno di tutto il resto che noi due sappiamo da sempre.
“Sebbene fossi preparata al fatto che avresti cambiato carattere con l’adolescenza, una volta avvenuto il cambiamento mi è stato molto difficile sopportarlo. All’improvviso c’era una persona nuova davanti a me e questa persona non sapevo più come prenderla.“
(Susanna Tamaro, Va dove ti porta il cuore)”
Un figlio adolescente è un terremoto.
Una figlia adolescente è un uragano, una tempesta in grado di lasciare dietro di sé una lunga scia di devastazione e non a caso gli americani danno nomi femminili ai cataclismi naturali più importanti.[1]
Una figlia autistica non vocale adolescente è uno tsunami, un terremoto seguito da un maremoto, un labirinto in cui si perdono le poche certezze acquisite negli anni, un cubo di Rubik: i pezzi sono sempre gli stessi, ma si incastrano ogni volta in modo diverso e tu non sai più come tornare al punto di partenza, non capisci come mai il giallo sia diventato verde e non torni più al suo posto se non scalzando un inerme rosso e creando ancora maggiore confusione.
Guardo Ariel, le gambe più lunghe, il viso meno paffuto, il collo del piede da zittire pure Alessandra Celentano forgiato da un decennio di passeggiate sulle punte: la ragazzina ha definitivamente preso il posto della bambina, anzi la sta seppellendo a colpi di porte sbattute e rabbia urlata guardandomi dritta in faccia. Se parlasse, probabilmente mi darebbe della vecchia incapace e rintronata, lo capisco da come mi guarda la ricrescita e mi sistema gli occhiali sul naso. Per lei sono la mamma, una vera rottura di scatole.
Gli adolescenti provano emozioni dicotomiche nei confronti delle figure di riferimento: il rapporto con gli adulti diviene sfidante, ma allo stesso tempo continuano a cercare il nostro sguardo per sapere se stanno prendendo la strada giusta, salvo poi sterzare all’ultimo minuto per dimostrarci di non avere più bisogno di noi, di essere sufficientemente adulti da poter decidere da soli. Ricordo il mio bisogno di una carezza e allo stesso tempo il fastidio che provavo nel ricevere consigli non richiesti dai miei genitori. Le opinioni degli amici sono più importanti di quelle dei famigliari di primo, secondo e terzo grado, soprattutto se hanno più di 20 anni.
Mio nipote e mio figlio passano rapidamente dal riso al pianto all’aggressività che, repressa fino ad un attimo prima, esplode improvvisa e devastante.
Loro sono le mie cartine tornasole, mi consolano, mi ricordano per la milionesima volta che prima dell’autismo c’è la persona, che possono cambiare le manifestazioni, ma non i sintomi, che una ragazzina di 11 anni è innanzitutto una preadolescente con un corpo e una mente in evoluzione, indipendentemente dal suo funzionamento neurobiologico.
Gli adolescenti non sono né carne né pesce, troppo grandi per essere considerati bambini, troppi immaturi per essere considerati adulti. L’adolescente medio vorrebbe essere unico, originale, ma allo stesso tempo rifugia la diversità e cerca di conformarsi alla massa.
Gli adolescenti sono egocentrici:pensano che gli occhi del mondo siano perennemente puntati su di loro è sufficiente una risatina rivolta altrove per minarne l’autostima. La goffaggine emotiva, tipica dei ragazzi timidi e socialmente immaturi, li può condurre a situazioni in cui possono essere oggetti di derisione e solo il supporto degli amici li può aiutare a rivalutare la propria immagine di sé.
Le persone autistiche, rispetto ai loro pari, vivono più spesso in una condizione di isolamento sociale (in fondo la diagnosi verte sul deficit persistente dell’interazione e comunicazione sociale) e raramente ricevono gratificazioni sociali spontanee da parte dei coetanei. Questi ragazzi, soprattutto se non presentano disabilità intellettiva, rendendosi conto del proprio isolamento, desiderano venire accolti dal gruppo e spesso di ritrovano in frustranti situazioni di derisione con conseguenti vissuti depressivi, attacchi di panico o psicosi reattive.[2]
Per Ariel non è più così. I primi anni di vita cercava di relazionarsi ai coetanei, ma mancandole gli strumenti comunicativi di base, si è progressivamente chiusa nel suo mondo, anche se permane la ricerca di relazione con bambini più piccoli di lei e con i quali è molto protettiva. A lei non interessa piacere agli altri, ma presenta tutti i sintomi di un’adolescenza incombente, con l’ulteriore aggravante di non potersi confrontare con le amiche e capire se quello che sente dentro e quello che succede fuori è normale. E da lì la rabbia, una rabbia feroce che riversa contro tutti noi e che può continuare per ore, salvo poi spegnersi all’improvviso, quasi fosse dotata di un timer interno.
Il carattere sta già diventando più mutevole, gli ormoni iniziano a pulsare, lo si vede nelle piccole cose, nei gesti, negli sguardi, negli sfregamenti e io tremo.
Penso al suo menarca con ansia: il momento più naturale per ogni donna, sta diventando il mio chiodo fisso.
Come si spiega ad una bambina con disabilità intellettiva che non deve avere paura, che quello che sta succedendo è l’inizio della vita, che in alcune civiltà è tutt’ora considerato il passaggio all’età adulta? Come potrò frenare i suoi impulsi sessuali, farle capire che lei non dovrà mai sfruttare a pieno quel dono che la rende una donna ? E più prosaicamente, come potrò farle usare adeguatamente gli assorbenti?
Mentre scrivo questo articolo, di fianco a me ho un pacco di fotografie da smistare: sono immagini di un tempo passato, di visi di neonati che divengono bambini, poi ragazzi e in alcuni casi adulti. Chissà se lei mi riconoscerà in quella bambina con i capelli ricci imbrigliati in due grossi codini da Candy Candy, prima, e in quella ragazza seria con i capelli lunghissimi e la matita bistrato, poi. Ebbene, sì, lavoreremo sul ciclo della vita per spiegare ad Ariel che tutti crescono e che il corpo cambia. Anche per le persone il cui funzionamento è diverso da quello tipico, ma il corpo, no, quello è lo stesso. E anche le emozioni.
Ariel è una persona, prima che una diagnosi. Ecco, noi neurotipici dovremmo ripetere come un mantra:
non è sempre l’autismo a parlare, molto spesso è la persona con il suo corpo, le sue emozioni, il suo carattere, la sua adolescenza.
[2] Confronta “I disturbi dello spettro autistico in adolescenza e in età adulta. Aspetti diagnostici e proposte di intervento”. A cura di Roberto Keller, ed. Erickson, 2016.
Articolo scritto per “Asperger News” e pubblicato sul numero di novembre del 2021
Quarant’anni fa la nonna Nene andò nei campi portando con sè le due nipoti, ma non altrettanti cappellini. Donna di pochi mezzi economici, ma di grande inventiva, era figlia di mezzadri, cresciuta in campagna e mandata a servizio a 12 anni. La vita le aveva insegnato a fare molto con poco e sapeva sfruttando al meglio il proprio pensiero divergente*: risolse il problema utilizzando un paio di mutande come copricapo. Ero la maggiore e, per la legge non scritta che i primogeniti devono essere sempre più responsabili e cedere alle richieste dei minori, mia sorella “vinse” il cappello con il frontino; a me toccarono le mutande a fiorellini, portate di riserva sul principio che “pan e gaban stan ben dut el an”**. A quei tempi avevo i codini ciccioni alla Candy Candy e per rendere la cosa più trendy (mia nonna avrebbe detto “figa”, perché era sempre al passo con i tempi), li fece uscire dalle gambe degli slip. Mi stavano così bene che pure mia sorelle le avrebbe volute, ma ce n’era solo un paio. Dopo un mezzo parapiglia, le tenni io, per un’altra legge non scritta, ossia “un pôc al va ben, ma no masse!*** Sono la più grande e adesso basta, si fa come dico io! ” e, soprattutto, pedagogicamente parlando, la norma educativa degli Anni ’80 del: “finché non si cavano gli occhi, va ancora tutto bene”.
Vorrei avere 11 anni e andare di nuovo a raccogliere erba medica o sorgo con la nonna, stare all’aperto senza preoccuparmi del sole malato, della pioggia acida, dei pesticidi. Vorrei tornare ai bei tempi in cui mangiavo le more selvatiche direttamente dai rovi, senza preoccuparmi di lavarle, perché “chel ch’al passe all’ingrasse!”****
Le mutande in testa no, quelle non mi servono: figurativamente le indosso ancora, anche senza i codini, per ricordarmi di tenere la mente aperta, di mettere da parte il mio funzionamento e di cercare soluzioni alternative ai problemi che quotidianamente affronto con la Princess, perché ciò che per me è bianco, probabilmente per lei ha un colore diverso… E De Bono muto!*****
Come vedete, in questa immagine la Princess, degna erede della bisnonna, ha deciso di usare le mutande come cappellino e lasciare le parti basse ad arieggiare. Potere della genetica divergente!
———- * Il pensiero divergente, teorizzato da Guilford nel 1967, è un particolare tipo di pensiero che coincide con la capacità di creare soluzioni originali ed efficaci in relazione ad un determinato compito o problema, dando, ad esempio, nuova utilità ad un oggetto di uso comune ** friulano: pane e vestiario sono utili tutto l’anno *** friulano: per un po’ va bene, ma non troppo a lungo **** friulano: quel che passa, ingrassa. ***** Edward de Bono nel suo “La tecnica dei sei cappelli per pensare” descrisse la sua teoria nella quale una persona, indossando sei cappelli immaginari di colori diversi, affronta un argomento da diversi approcci e prospettive, applicando anche il pensiero laterale.
La vacanza è andata bene, tutto bellissimo. Ariel è stata super collaborativa e ha pure decantato la Divina Commedia in versi.
La storia si lascia raccontare: contano solo i fatti e le prove documentali, poiché ognuno di noi può raccontare il proprio vissuto e non è detto che sia esattamente rispondente alla realtà, dando quindi un’immagine di sé e di chi ci è vicino non oggettiva, poiché filtrata dalle proprie emozioni.
La verità sulla vacanza è che ogni giorno è stato funestato da crisi di autolesionismo ed eteroaggressività. In vacanza come a casa, nulla è, ahimè, cambiato.
I sovraccarichi sensoriali si riproducono come Gremlins (ieri è bastato il canto delle cicale), nuove rigidità (adesso annusa pure l’acqua), mentre alcuni cartoni animati si trasformano in ossessioni da vedere e rivedere, finché fanno male, finché diventa tutto troppo doloroso.
Mi piacerebbe parlarvi dei grandi progressi di Ariel, delle cose buffe che dice, affermare che le sedute al centro non servono, che anzi la vogliono solo normalizzare. Vorrei davvero potervi dire che lei è stata scambiata per pigra e visionaria quando riferiva le sue crisi, anzi mi piacerebbe che ve lo raccontasse lei.
Invece io mi ritrovo a parlare di una condizione che non consente di passare 5 giorni sereni nemmeno in vacanza, nemmeno quando credo di aver pensato a tutto e poi mi accorgo che l’unica vera costante indipendente dalla mia volontà, ma fondamentale, è lo stato di salute psicofisico di della Princess. E su quello non posso nulla, se non cercare di prevenire, di alleviare, di consolare.
Questo è il tipo di funzionamento che non permette mai di abbassare la guardia, che insegna che le ore di sonno vanno sfruttate meglio possibile per avere sufficienti risorse per fronteggiare le lunghe giornate e le infinite nottate. Il mio sogno di una casa perfetta è diventato un’utopia: i muri, tinteggiati lo scorso anno, pare che non vedano un imbianchino da decenni; la camera è stata sfondata durante le sue crisi, il giardino è incolto, perché o mi prendo cura di lui o mi prendo cura di lei.
Quello della Princess è un autismo fatto di botte in testa, di ginocchiate in faccia, di “capa a muro”, di meltdown pressoché quotidiani, di incapacità di comunicare i propri stati d’animo.
In questo momento la mia narrazione non è rassicurante, non illude sul futuro di Ariel, ma non vuole nemmeno negare che i ragazzi possono migliorare. Lungi da me voler togliere la speranza ad un genitore! Questa è Ariel, questa è la mia vita con lei.
Fortunatamente non per tutti è così gravosa. Capisco chi si vuole abbeverare alla fonte di chi infonde speranza in un futuro luminoso, probabilmente lo avrei fatto pure io al momento della sua diagnosi.
Quando vedo un genitore in difficoltà con la propria creatura, penso alla nostra fatica, di Ariel in primis, ma anche mia e di Davide, e spero sempre che a loro le cose vadano meglio, che ci sia un click che permetta loro di trovare la giusta chiave di sviluppo e crescita reciproci, perché una cosa è sacrosanta: con i nostri figli si impara e si cresce ogni giorno. Loro attivano costantemente il nostro pensiero divergente, costringendoci ad accantonare la nostra forma mentis per cercare di capire la loro, ci fanno spogliare del nostro funzionamento per entrare nel loro.
L’attuale condizione di Ariel, la fotografia di questi ultimi 10 mesi mi fa chiedere: dov’è la dignità di una vita in cui ci sono solo rarissimi sprazzi di serenità ai quali attingere per far fronte al resto della giornata? Perché lei non può essere serena? Non la sogno più madre di famiglia o giovane sposa all’altare, non sento più la sua voce gialla bucare il sonno, non ho più aspettative di una vita autonoma per lei. La serenità, però… Almeno quella, cazzo!
Amo Ariel, la amo da impazzire, non riesco ad immaginare la mia vita senza di lei, ma in questi anni mi ha lentamente divorata. Mi sento vecchia, sfinita, mi guardo allo specchio e non mi riconosco.
Intanto, siccome la storia si lascia raccontare, pubblico questa fotografia, così chi non ha voglia di leggere e si è fermato al primo paragrafo senza approfondire ulteriormente, può continuare ad immaginare che tutto stia andando bene. I video, quelli della realtà, non li pubblico: non è dignitoso per lei e non è piacevole a vedersi, soprattutto per chi non sa cosa sia una crisi autolesionistica. Perché li faccio? Perché è piena di ematomi e devo poter dimostrare che sono autoinflitti, poiché essere un genitore di una persona come Ariel significa dover pensare anche a questo: prevenire eventuali accuse di abusi, anche se il suo comportamento è ormai pervasivo e quindi sotto gli occhi di tutti.
Non lascio alcuna morale né suggerimento su ciò che voglio comunicare, ognuno tragga le proprie conclusioni per quella che è la propria esperienza con l’autismo. Io, intanto, continuo a guardare la verità in faccia e a cercare un modo per aiutare Ariel a stare bene. Del resto, ormai, poco mi importa.
Un’ultima cosa, però, la voglio dire a chi non conosce l’autismo. Ascoltate i video degli attivisti, leggete i loro libri e le loro pagine sui social, seguite le loro dirette e i loro webinar, ma ricordate: quella è solo una delle mille sfumature dello spettro autistico. Ci sono persone autistiche che non escono mai di casa, che non parlano, che non sanno comunicare e sono quelle di cui è meno divertente leggere o parlare.
Non dimenticatevi di loro, altrimenti arriveremo al paradosso del
“Non scrive, non parla, non fa i Tiktok. Sicura che sia autistica? Fammi vedere la sua diagnosi.”
Se sento ancora una volta “Jack… Jaaaack, I’ve got the plans for the next Halloween!”*, tiro una testata al muro (Ariel docet) e mi autoinfliggo un trauma cranico.
Acting out** come se non ci fosse un domani, ma sono consapevole che Ariel mi manderebbe in estinzione in tempo zero.
In questi giorni guardo le sue ginocchia dalle mille sfumature di marrone, viola, giallo, blu e mi pongo una sola domanda: “PERCHÉ?”
Anche lei ha diritto a stare bene fisicamente e mentalmente, ad essere serena.
Invece i suoi interessi, pochi e assorbenti, si trasformano in ossessioni che sfociano presto in crisi autolesionistiche, non appena qualcosa, che solo lei conosce e sa, non va come si aspetta.
Cerco di fare in modo che non si faccia troppo male, uso me stessa come un cuscino, assorbo tutta la sua sofferenza che diventa quindi anche mia e mi chiedo quale sarà il suo futuro.
Tempo fa una ragazza autistica mi diede delle mamma pancina e mi disse di stare zitta, poiché io non sono autistica e non posso capire il loro dolore.
Oggi le dico: “Cara Signorina, è vero io non sono Ariel, non conosco il suo dolore, ma conosco il dolore di una madre che vede la figlia devastarsi il corpo di ematomi e graffi ed è la cosa più dolorosa del mondo: più della separazione, più della cicatrice sulla gamba, più delle due fratture del capitello radiale, più del parto di Davide.”
Quello di Ariel no, quello è stato facile.
Mai avrei immaginato che quella creatura nata con la camicia avrebbe sofferto così tanto nella sua vita.
E intanto continuo a chiedermi: PERCHÉ?
* “Nightmare Before Christmas” di Tim Burton
** Acting out: azioni aggressive e impulsive utilizzate dall’individuo per esprimere vissuti conflittuali e inesprimibili attraverso la parola e comunicabili solo attraverso l’agito.
Molti studenti non lo affronteranno mai a causa di un processo di inclusione e formazione non adeguato alle loro caratteristiche personali.
Alcuni studenti lo svolgeranno con strumenti compensativi e misure dispensative, altri affiancati dall’insegnante di sostegno.
Per la maggior parte dei ragazzi, esso porterà al diploma e aprirà le porte al mondo del lavoro o all’Università; ad altri verrà concesso un attestato di credito formativo e da settembre il loro futuro sarà ancora più in certo.
Ariel difficilmente arriverà alla fine della Scuola Secondaria di Secondo Grado: troppe difficoltà personali le impediscono di progredire come potrebbe. Se non fosse ipersensoriale, se non fosse eccessivamente rigida, se non fosse incapace di chiedere aiuto, se sapesse parlare…
Se, se, se…
Di anno in anno, macché dico!, di settimana in settimana ritaro le mie aspettative sul suo futuro. Sì, aspettative, perché anche noi genitori di persone disabili abbiamo delle aspettative per loro e su di loro: non averle significherebbe non avere fiducia nelle loro capacità e ritenere la loro vita meno degna di altre.
E ogni volta che i nostri figli raggiungono un nuovo obiettivo, gioiamo ed esultiamo come se avessero vinto il Nobel per la Matematica, invece, magari, a 10 anni dicono solo “mamma” per la prima volta. Ma quel “mamma” ha richiesto più lavoro e studio e costanza di una laurea in astrofisica nucleare.
E ogni volta che i nostri figli fanno un passo indietro e perdono abilità o non le raggiungono, noi siamo comunque lì a fare il tifo, ché non si piange davanti a loro: noi sappiamo che non vanno sottovalutati, che comprendono e percepiscono molto di più di quanto la gente pensi.
Appena diagnosticata, leggendo Temple Grandin, Jim Sinclair, Donna Williams e attaccandomi con le unghie e con i denti alle diagnosi postume di taluni personaggi famosi, mi ero illusa che Ariel avrebbe recuperato il gap che la separava dai coetanei. Sì, ok, avrebbe avuto un funzionamento diverso, avrei imparato come relazionarmi a lei e le avrei fatto da cuscinetto sociale, ma avrebbe avuto una vita piena e autonoma.
Con gli anni, invece, ho capito che ogni persona autistica segue un proprio percorso di sviluppo e autonomia e che quello di Ariel era ben diverso da quello delle persone di cui avevo tanto letto.
Non mi sono arresa, anzi, ho intensificato i miei sforzi per cercare di capirla e di esserle di supporto, ho adeguato la mia vita alla sua.
A 2 anni la sognavo ingegnere, oggi sono consapevole che i suoi titoli di studio non hanno valore per la società, men che meno per lei. E quindi…
Chissenefrega se non farà mai l’esame di maturità, ciò che conta è che lei trovi un po’ di pace. Mi piacerebbe che finisse le scuole secondarie, questo sì, perché significherebbe aver creato un buon progetto di inclusione per lei dandole la possibilità di stare con i coetanei, ma adesso, ora, ho altre priorità.
In questo momento sogno per lei un’intera settimana di serenità, senza dolore, senza ansia, senza crisi, senza autolesionismo, senza solitudine.
Oggi, giorno 22 giugno dell’Anno Domini 2022, vorrei che non si facesse più male e che avesse la forza e la capacità di aiutarmi a capirla, sorridendo come solo lei sa fare, ridendo come non fa più da troppo tempo.
Non pubblico video o fotografie delle crisi autolesioniste di Ariel, perché la sua dignità va preservata, ma chiedo rispetto a gran voce per la Princess e per tutte le persone come lei, non minimizzando le loro difficoltà: se la diagnosi è di disturbo dello spettro autistico significa che è l’autismo la causa principale di disabilità, non le comorbidità. Altrimenti la diagnosi sarebbe di Disabilità Intellettiva con tratti autistici. E non parlatemi di ICF etc etc perché oggi non è aria: qui la società e le barriere non c’entrano nulla. Non è la società che le fa partire l’ipersensorialità in camera sua al buio mentre fa ciò desidera. Non ci sono barriere nella doccia, nessuno le impone di guardare il medesimo frame di cartone animato all’infinito. Grazie.