"L'amore non conosce barriere. Salta ostacoli, oltrepassa recinzioni, attraversa pareti per arrivare alla sua destinazione, pieno di speranza." – Maya Angelou
“Mamma, come riesci a essere così calma con tutte le cose che stai facendo tra Ariel che sclera, casa, scuola e università?” “Ti sembro calma?” “Sì.”
Inghiotto il bolo di ansia. Sorrido.
“Si chiama masking, amore mio.” “E cos’è?” “Hai presente le maschere veneziane?” “Quelle di porcellana tutte truccate?” “Sì, quelle. Ecco. Immagina di averne una sul viso tutto l’anno, anche quando non è Carnevale, e di fare vedere agli altri solo quello che vogliono vedere.” “Ma è faticoso…” “Faticosissimo, ma se mi abbracci la stanchezza se ne va.”
Mi stringe forte, ormai è alto quasi quanto me, il mio ragazzo lungo e secco. Una lacrima si ferma all’angolo dell’occhio destro.
“Piangi, mamma?” “No, tesoro, non sto piangendo: mi è andato un po’ di amore nell’occhio.”
I loro respiri si alternano pesanti nel sonno anche se quelli di Lui sono un più lunghi di quelli di Lei e così Lui ne perde uno ogni due di Lei.
Io li ascolto, mentre questi maledetti criceti che ho nel cervello continuano a sbattersi contro gli uni gli altri e il mio cuore accelera, mentre la pressione fluttua su e giù, la percepisco dal ronzio delle orecchie e dal fuoco che mi sale alle guance.
Vorrei dormire. Non riesco.
Vorrei trovare soluzioni. Non posso.
Vorrei avere uscire dal letto. Impossibile.
Lui ha deciso che stasera mi deve consolare e che, pertanto, devo mettermi nel letto tra di loro. E così eccomi qua bloccata da un braccio di Lui e avvinghiata da una gamba di Lei. È sempre più difficile nascondere le cose a Lui, a Lei non è mai stato possibile: Lui sta crescendo troppo in fretta, di questo passo, alla fine dell’estate sarà più alto di me e la sua capacità di introspezione fa sì che riesca a cogliere ogni minima sfumatura delle mie espressioni; l’istinto di Lei, invece, è così ben modulato da essere lo specchio dei miei stati d’animo.
Sarebbe facile dire che sono preoccupata per Lei, addossare all’autismo questa ennesima, eterna notte in bianco. Sarebbe facile, ma non veritiero e rispettoso di Lei.
In questo momento i criceti fanno a pugni tra di loro, i maledetti! Cerco di separarli, di dare loro un nome, un’identità, una priorità.
Potrei usare i codici a colori come in Pronto Soccorso: – Criceto bianco: può aspettare anche qualche giorno. – Criceto verde: può aspettare anche dopodomani. – Criceto giallo: deve essere risolto domani. – Criceto rosso: deve essere risolto prima possibile, anche subito.
Peccato che il criceto rosso di stocazzo (forma aulica di origine basso medievale) non dipenda da me e che io debba stare qua ad aspettare che i professionisti facciano il loro lavoro.
Intanto ogni secondo che passa, io muoio un po’ e cerco di acchiappare criceti impazziti.
Gli altri tre roditori sui quali potrei avere maggiore controllo, si rifiutano di rientrare nelle loro ruote: “Quello rosso! Prima devi acchiappare quello rosso!”, protestano.
Così eccomi qua: sveglia, stanca, depressa, rabbiosa, ansiosa a cercare di domare pensieri e situazioni imprescindibili dalla mia volontà.
Intanto Lui ha spostato il braccio, Lei ha cambiato fianco.
Lancio kitemmuort a tutti quelli che mi hanno messa in questa situazione di ansia e, come un furetto artritico, esco dal letto e al buio vado in cucina. Metto su il bollitore, ma lo sostituisco in fretta, perché sia mai che il fischio svegli quelle due splendide creature che mi hanno invaso il letto.
Sciolgo una… anzi, facciamo due buste di melatomilla con uno… anzi, facciamo due cucchiai di zucchero e mi metto sul divano al buio a sorseggiare la camomilla in compagnia dei criceti. Loro stanno rallentando, la mia ansia no.
Dovrei prendere le goccine buone, ma cerco di resistere, non voglio un aiuto chimico. Voglio solo che per una volta, per una sola volta le cose vadano dritte senza intoppi, ma nella mia vita questo non pare essere possibile.
Oggi sono stata lì lì per mollare. Ieri ho avuto davvero pensieri brutti, ma poi ho pensato a Lui che mi diceva: “Mamma, tu non molli mai!” e a Lei che mi sorride fiduciosa guardandomi da sotto in su.
Io non mollo mai.
Non mollerò nemmeno questa volta, non posso deludere Davide, non posso tradire Ariel, ma una tregua, perdìo, ho bisogno di una tregua.
Immagine dei criceti che prendono la camomilla con me – Fonte web
Discrimino le piastrelle bianche a favore di quelle nere.
Divido mentalmente le parole in sillabe sperando che siano dispari ché la perfezione dei numeri pari mi infastidisce quanto un pezzetto di popcorn incastrato tra i denti.
In altre parole: lo stato di ansia sta raggiungendo vette mai toccate nemmeno da Messner, quando, appeso alla cima, declamava con vigore “Altizzima, purrrizzima, Levizzima!”
Nella mia vita le uniche cose purrrizzime sono le goccine buone che centellino con parsimonia, perché la strada per l’inferno dell’assuefazione è lastricata di tante piccoli dosi e io ho ancora abbastanza forza da non volermi arrendere al benessere chimico.
Io mi merito un po’ di serenità, di pace interiore, un’intera notte di sonno e un battito cardiaco regolare, “perché io valgo”.
(A questo punto immaginatemi fare il movimento di testa della Schiffer, ma con un cesto di capelli riccissimi e le vertebre cervicali che scricchiolano).
E così ci ho dato un taglio… ai capelli, ovviamente, perché è risaputo che, se una donna decide di darsi una regolata alla zucca, comincia dalla chioma e poi procede per gradi a sbobinare i neuroni. Considerato che il crollo delle sinapsi è ormai attivo da diversi anni, non dovrei metterci poi molto: per la fine della prossima settimana di essere una donna nuova di zecca, ma nel frattempo viaggio con la gioia artificiale nello zaino e, quando sento che le lacrime stanno prendendo il sopravvento, stringo il mio amuleto bianco e verde tra le mani pensando: “Triplo T, non mi avrai!” e lo ripongo nella tasca più interna.
Resto dell’idea che meglio un vasetto di Nutella oggi che una boccetta di antidepressivo domani, ma in alcuni frangenti la mora spalmabile non basta più. Non viene abbandonata, ma demansionata: mia nonna, ogni volta che doveva prendere uno sciroppo, pretendeva una globulosa zuccherata e citava Pinocchio: “Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!… Mi purgherei tutti i giorni”. Così uso la mia panacea per addolcire il gusto amaro della medicina che guarisce l’umore, ma ferisce l’orgoglio.
Perché per quanto mi riguarda non mi vergogno a dire che prendo un farmaco per cercare di stare meglio, ma mi ferisce essere scivolata sulla buccia di banana del 2020, avendo superato con le mie sole forze il 2014, anno della diagnosi di Ariel, e soprattutto il 2008, quando a ormai 33enne ed emula di quello che portava una corona di spine, presi la via Crucis del matrimonio.
Mi rendo conto che questo post segue l’invisibile filo che lega i miei pensieri, un mito a ruoli invertiti: il mio Teseo barbuto da anni cerca di capire cosa mi frulla per la testa, mentre sgomitolo persa nel mio labirinto di idee, sogni, frustrazioni.
È decisamente un articolo sconclusionato arricciato in capricci con imprevedibili colpi di sole su un base scura.
Sto male? Sicuro! Vi sembra il testo di una che sta bene?, ma almeno cerco di riderci su e mentre mi guardo riflessa nel vetro della finestra della cucina, ho un nuovo pensiero ossessivo: esiste una spuma per capelli ricci che li definisca senza avere l’effetto incollante del Bostik?
* Peramordiddio, prima di iniziare a difendere quel sant’uomo di mio marito dalle accuse di calunnia da me perpetrate: sono ironica. È una di quelle affermazioni del tipo: è sempre stato bene, finché non è andato in ospedale. La diagnosi non è l’inizio della malattia, ma il riconoscimento della stessa, iniziata chissà quando nella notte dei tempi o addirittura nata con noi e manifestatasi un po’ alla volta. E, sì, è una banale generalizzazione, ma se dovete farmi la punta alle matite, ditelo subito che prendo ancora un paio di goccine buone. Eccheccazzo, aiutano a stare meglio, ma non fanno miracoli!
Seduta sul primo scalino del vialetto, la canotta del pigiama rosa che pende dalla spalla sinistra, assapora ad occhi chiusi lo yogurt alla fragola. «Mmh…», mugola soddisfatta: ama la sensazione dei pezzetti e il retrogusto acidulo. Una leggera brezza le scompiglia i capelli, il sole le riscalda il viso. Gli altri stanno ancora dormendo, le prime ore del nuovo giorno sono preziose per lei: è l’unico momento in cui può pensare al futuro e guardare al passato con serenità senza suoni e rumori, senza distrazioni. La campagna è silenziosa, in lontananza si vede solo un trattore rosso, le cicale continuano a frinire il loro inno alla vita, all’estate, alla gioia del qui e ora. Il silenzio della campagna contrasta con il fragore nella sua mente: la diagnosi della figlia è un pugno in pieno viso, un terremoto del cuore e dell’anima.
Lo psicologo non ha avuto il coraggio di parlare di disabilità, non ha mai pronunciato quella parola, quasi se ne vergognasse. L’ha definita una bambina “speciale” e lei ha da subito odiato quell’aggettivo, ripetendo al marito che, stordito dalla situazione, non capiva quanto lo psicologo stesse comunicando loro: «Non è una bella cosa, quando dicono che è speciale, stanno cercando di indorarci la pillola. Io non voglio una bambina speciale, voglio una bambina normale!»
Pensa al futuro della sua bambina, si chiede se andrà all’università, se avrà un lavoro, un compagno che la ami e la protegga, dei figli.
La sua Principessa ha 3 anni: giorno dopo giorno, mese dopo mese lei ha costruito un mondo di aspettative attorno a sua figlia, un castello di sogni, a volte di rivalse sul proprio passato. Quando era nata le aveva contato le dita delle mani e dei piedi, le aveva guardato le orecchie minuscole e, con l’indice stretto nel piccolo pugno di quella creatura nuova di zecca, l’aveva guardata negli occhi blu scuro di neonata sussurrando: «Sei perfetta, sei bellissima, sei l’amore della mamma e andrà tutto bene, perché io sarò sempre con te.»
Fino a sei mesi prima lei conosceva a malapena la parola autismo, come può crescere e aiutare questa figlia così diversa da lei? Ripensa al colloquio avuto una vita fa con il marito, allora fidanzato: stupita dal comportamento di un bambino che in un telefilm trascorreva le giornate impilando cubetti in alte pile colorate, gli chiese che cosa fosse l’autismo e lui, dopo averglielo spiegato, aveva commentato laconico: «Morirei se avessi un figlio autistico.»
Invece, nonostante il dolore, non è morto, ma è cambiato: non sorride più, non parla più con lei e si sta allontanando, rapito da irrazionali sensi di colpa.
Chiude gli occhi e guarda il buio dritto in faccia. Si chiede com’è morire, se dopo la morte c’è un nuovo inizio o solo il niente assoluto, mentre piccoli lampi di luce le pulsano alle tempie, il cuore batte forte, le orecchie ronzano. Spalanca all’improvviso gli occhi con la sensazione di soffocare, una lacrima appesa all’angolo dell’occhio. Vorrebbe morire, vorrebbe strapparsi il cuore dal petto, quel dolore è straziante. La pelle le è nemica, brucia, non sente le mani, un formicolio la pervade da capo a piedi. Cerca di trovare l’aria, si sente sommergere da implacabili onde cremisi di paura. Sa cosa sono, sa cosa deve fare. Cerca di rallentare il respiro, di controllare i pensieri negativi che, come uccelli rapaci, la stanno aggredendo. «Andrà bene, andrà tutto bene… Lei starà bene… Staremo tutti bene…» Le tempie pulsano, il collo è un groviglio di muscoli e nervi, le mani sono strette in pugni che combattono la paura, che lottano per la vita. «Pensa a qualcosa di bello… Dài, su… Pensa alle sue gambette instabili mentre muoveva i primi passi al mare…» «Il suo sorriso sdentato…» «I capelli sottili…» «Le mani cicciottelle…» «I piedini con le dita a salsicciotto…» «Però è malata.» «Non è malata!» «Hai ragione, sta bene, però non parla…» «Parlerà!» «Non si gira quando la chiamo. Forse non mi vuole bene…» «Basta cazzate! Lo sai che ti adora, solo che è fatta a modo suo…» «Ma io vorrei che fosse fatta a modo mio.» «Non puoi: lei è lei.» «Sì, ma io avrei voluto scegliere… Non ho potuto scegliere… Non sono abbastanza forte.»
«Lo diventerai. Per lei, per loro, per te.» I palmi delle mani ormai sanguinano, le unghie sono conficcate nella carne viva. «Respira piano… Respira piano…» Alcuni rumori provengono dalla casa. Gira lentamente la testa di lato, le orecchie ancora ronzanti le fanno percepire solo suoni ovattati. Sente due voci: sono il marito e il figlio. Non può farsi vedere così.
«Alzati, su, vai via da qua!»
«Non ce la faccio…»
«Smettila di piagnucolare, così non sei di aiuto a nessuno.» Si alza lentamente e, appoggiandosi alla colonna, si dirige verso l’orto, l’ultimo baluardo del paese, il confine del suo piccolo mondo.
Al suo incedere gli uccelli si alzano in volo dal ciliegio, ma lei non se ne accorge.
Arriva al recinto ricoperto di edera e urla, urla tutto il suo dolore, la sua rabbia, la sua impotenza.
Si aggrappa alla rete metallica verde, le nocche bianche.
Respira lentamente, conta i battiti del cuore, il ronzio sta diminuendo.
Svuotata, si siede sull’erba con la schiena appoggiata alla recinzione, circonda le ginocchia con le braccia e nasconde il viso contro le gambe: va un po’ meglio. Non sa cosa succederà tra un’ora, domani o tra un anno, ma adesso, in questo istante, sta ricominciando a vivere.
Il figlio la chiama ripetutamente, lei si alza e raccoglie una manciata di grosse amarene nere e dolcissime.
«Eccomi», risponde. «Ero nel frutteto a raccogliere un po’ di ciliegie per la colazione», il sorriso tremolante, le gambe ancora incerte, le mani pieni di globi zuccherini.
Il bambino la guarda, con quello sguardo scuro e denso che può scavare nelle profonde pieghe del cuore materno, e decide di volerle credere. Piega la testolina ricciuta di lato e fa un sorriso sghembo, lo stesso della madre, lo stesso della sorella.
Rientrano insieme, mangiando ciliegie e parlando della fine della scuola: è l’inizio di una nuova giornata lunga una vita, intensa come il profumo dei gigli nell’orto.
Sullo scalino ormai caldo di sole, le formiche hanno preso possesso del vasetto di yogurt.
Sono passati 6 anni da allora.
La bambina non parla, cammina sulle punte, è una piccola ballerina senza riposo e le sue mani sono farfalle in perenne movimento. Non si sposerà mai, non avrà mai figli né un lavoro, starà sempre con i suoi genitori.
A volte la madre urla ancora nell’orto, ma più per la stanchezza che per il dolore: ora è consapevole che sua figlia non avrà il futuro che aveva immaginato per lei, ma anche che la cosa più importante è che la bambina sia serena e soddisfatta della propria vita. Tutte le notti la guarda dormire e le promette che la aiuterà ad essere la migliore se stessa possibile. Soffre molto quando scopre che apprendimenti che sembravano consolidati, all’improvviso evaporano come una pozzanghera in una calda giornata d’estate, ma sa che con sua figlia non c’è mai nulla di definitivo e che ogni giorno è traboccante di dettagli come un quadro di Henri Rousseau.
La normalità è un’astrazione che ognuno di noi vive in base alle proprie esperienze e per questa famiglia è normale iniziare ogni nuovo giorno come se fosse una vita nuova di zecca, con lo sguardo pieno di amore di una madre che si perde negli occhi blu di una neonata.
Sto uscendo di casa, il cuore aggrovigliato di pensieri, la mente traboccante di lacrime, lo stomaco gonfio di tensione.
“Auguri, mamma!”
Non mi ero nemmeno accorta di lui, è arrivato silenzioso alle mie spalle, i capelli arruffati, il pigiama ormai troppo corto. Mi giro lentamente e gli chiedo sorpresa:
“Per cosa, Davide? Non è ancora il mio compleanno.”
“Auguri per il lavoro: ti vedo tanto in ansia in questi giorni…”
Eccomi qua! Mi presento: mi chiamo Katjuscia, ho quasi, QUASI!, 45 anni, un marito, due figli e un cane che mi osservano vivere in un perenne stato d’ansia.
Già, perché se Davide con molta gentilezza mi ha fatto capire la sua preoccupazione, Luca, in compenso, mi osserva preoccupato e Baloo mi aspetta con occhio pendulo.
E Ariel?
Lei, quando rientro dall’ufficio, è già ferma sull’uscio, mi abbassa la cerniera del giubbotto, me lo toglie, lo mette sulla sedia, mi prende per mano, mi porta sul divano, mi fa sedere e mi dice “CO CO!”. In pratica mi ordina di passare del tempo con lei, a darle l’affetto negato durante le mie poche ore di assenza.
Io ho un part-time piccolissimo, venti ore a settimana, e mi sento davvero fortunata ad avere avuto questo orario ridotto, ma nell’ultimo mese ho lavorato di più per fronteggiare tre fiere tedesche che, ahimè, sono state rinviate, mentre la mia ansia aumentava e la mia famiglia ne subiva gli effetti.
A quasi, QUASI!, 45 anni scopro che la Nutella non basta più e devo imparare a controllare l’ansia per il benessere di queste quattro anime generose e pazienti con cui condivido la vita.
È arrivato il momento di darmi una calmata: da oggi più leggerezza e boccacce per combattere lo stress!
Il mio pensiero va alle madri che, costrette fuori casa tutto il giorno, vedono i loro bambini soffrirne la mancanza e mi chiedo se il part-time potrebbe essere una buona soluzione per tutte, almeno fino ai 10 anni dei figli.