"L'amore non conosce barriere. Salta ostacoli, oltrepassa recinzioni, attraversa pareti per arrivare alla sua destinazione, pieno di speranza." – Maya Angelou
Un giorno vi racconterò della mia mini vacanza a Firenze.
Per oggi accontentatevi di questo bellissimo dipinto conservato agli Uffizi, “L’Annunciazione” di Simone Martini e Lippo Memmi.
Annunciazione tra i santi Ansano e Margherita Dipinto di Lippo Memmi e Simone Martini
L’ho guardato a lungo, con sempre maggiore ilarità. Mi sono focalizzata sugli sguardi dei due protagonisti principali, che manifestano più di rabbia e fastidio che stupore e reticenza.
Figlio, in questa lunga notte senza di te, il mio pensiero ti è più vicino che mai.
Ripenso al tuo dolore dei giorni scorsi e sono combattuta: ti devo dire le cose come stanno o ti devo proteggere?
Sono una madre imperfetta di un figlio imperfetto.
Per fortuna.
Non saprei gestire la perfezione come coloro che guardano insistentemente al di là dell’essere umano che hanno generato e vanno dritti per la loro strada di beatitudine, senza porsi mai un dubbio, mai.
Se dovessi essere onesta con te, ti dovrei spiegare che alcune persone ti saranno amiche solo finché gli tornerai utile, dopodiché si scorderanno il tuo numero di telefono, fino alla loro prossima necessità. Questo, purtroppo, lo stai imparando da solo e il tuo dolore diviene mio.
Dovrei aiutarti a capire la sottile differenza tra educazione e gentilezza e insegnare che taluni meritano solo la prima, che non deve mai fare difetto, mentre la seconda deve essere riservata unicamente a chi ti tratta con rispetto.
Ti dovrei inculcare che ad un torto si risponde con un torto, perché in questo mondo dell’effimero conta più sentirsi fighi e forti, tutti uniti contro uno, piuttosto che cercare di comprendere le difficoltà altrui.
Dovrei dirti suggerire di pensare a te stesso, perché tu hai già abbastanza difficoltà da gestire e di non soffrire per i problemi di persone che reputi amiche, ma che in realtà non lo sono.
Invece ti dirò tutt’altro.
Le ore sono passate lentamente e in questa mattina grigia di pioggia, ti dirò quello che ho visto ieri e deciderai tu come comportarti con loro.
A dodici anni sei troppo grande per trattarti da bambino piccolo, ma troppo piccolo per soffrire come un adulto. È ancora mia responsabilità di madre aiutarti a crescere in modo sano con valori che reputo fondamentali e al bisogno aiutarti a comprendere, almeno finché me lo concederei, almeno finché non camminerai da solo davanti a me, troppo spedito per poteri raggiungere. A quel punto io ti seguirò con lo sguardo e ti lascerò andare, ma tu saprai che io sarò sempre qua per te.
Così oggi ti dirò che essere gentili fa bene all’umanità e se la tua gentilezza verrà scambiata per mollezza di carattere, fregatene: ciò che conta è addormentarsi sapendo di avere fatto del proprio meglio per rendere questo mondo un posto migliore.
Ti suggerirò di non metterti in competizione con nessuno. Faulkner ha scritto: “Non cercare di essere migliore degli altri, cerca di essere migliore di te stesso” e soprattutto non pensare di poter cambiare chi ti è accanto. Puoi aumentare la consapevolezza delle persone, non la loro natura, a meno che siano loro a volerlo. Focalizzati su di te: costruisci il miglior te stesso possibile, impara dai tuoi errori, cerca di avere fiducia nelle tue capacità e ricordati che sono gli errori che ci aiutano ad imparare. Non ambire, però, alla perfezione, è una meta irraggiungibile: le virtù conformano la natura umana, i difetti la diversificano. Il nostro compito è cercare di risolvere i nostri comportamenti che possono ferire gli altri e sminuire noi stessi.
A questo punto, probabilmente, ti farò un esempio, di quelli sciocchi che ti fanno ridere tanto e, poi ti chiederò di essere sempre aperto al mondo: se vedi una persona in difficoltà, dovrai aiutala sempre e comunque, sia essa amica o meno. Tempo fa, dopo aver consumato un cappuccino al bar del paese, mi resi conto di aver scordato il portafoglio a casa: l’indifferenza dei presenti di fronte al mio palese smarrimento, mi mortificò. Nonostante tutto se le stesse persone oggi dovessero essere nella mia situazione di allora, offrirei loro il caffè.
Abbracciandoti ti spiegherò che ad un torto subìto non si risponde con un torto, ma, se riterrai le persone degne della tua fiducia, potrai cercare un confronto, perché a volte la nostra interpretazione del mondo è diversa da quella degli altri.
Se, invece, sarai tu a far soffrire qualcuno, dovrai chiedere scusa. Potresti non venire perdonato, le tue scuse potrebbero essere usate contro di te, ma devi imparare a farti carico delle tue responsabilità: potrai avere mille giustificazioni, ma i nostri errori non sono sempre colpa “degli altri” e comunque non è il mondo che deve pagare le nostre difficoltà.
Le persone forti sono persone che la vita ha messo spesso in ginocchio e che ogni volta si sono rialzate, nonostante il dolore, nonostante la fatica. In altre parole: le persone forti sono spesso esseri umani a cui la vita non ha fatto sconti.
Certo, vorrei per te una vita leggera fatta di pranzi al centro commerciale con amici veri, che sappiano apprezzare le tue qualità e sorvolare sui tuoi difetti, ma non è ancora il momento per te.
Come se ciò che tutto quello che riguarda casa e figli fosse di vostra esclusiva competenza?
Nei luoghi pubblici i bagni dei disabili nel 99% dei casi sono associati a quelli delle donne. Perché? Perché nella cultura patriarcale di stocazzo l’accudimento è “roba da donne”.
3 anni fa Ariel fu ricoverata in day hospital in un centro specializzato fuori Regione. Ebbene, nel regolamento era previsto che ogni paziente (fosse maschio o femmina, poco importa) doveva essere costantemente accudito da “una figura di sesso femminile”.
E questa è discriminazione per ambo i generi.
È ora di finirla con le frasi “Di cosa ti lamenti? Tutte le tue amiche puliscono casa, cucinano e lavano come te…”
Uomini, se la pensate così, prendete il telefono e chiamate vostra madre, vostra sorella, vostra cognata, le vostre colleghe e le mogli dei vostri amici. Fate un sondaggio e dite loro: “Non ti lamentare delle pulizie e del l’accudimento dei bambini, sono millenni che lo fate!” e vediamo quanti vaffanculo collezionate.
Il fatto che le nostre qualifiche professionali siano sempre considerate inferiori alle vostre, che dobbiamo rinunciare al lavoro per i figli e che il lavoro sommerso che sbrighiamo quotidianamente non venga riconosciuto, non implica che sia una situazione che amiamo e che dobbiamo accettare in silenzio o che quando “ci aiutate” vi dobbiamo essere grate: la casa e i figli sono pure vostri!
Ti ricordi quando tuo figlio emetteva i primi suoni?
La la la Ma ma ma Pa pa pa
E tu correvi da lui dicendo: «Bravo! Hai detto “mamma”! Diciamolo ancora insieme… Mam-ma… Mam-ma!», lo prendevi in braccio facendogli mille coccole e il solletico e lui, ridendo di gioia, ricominciava con “ma ma ma”.
Ora ripensa all’altra creatura che hai portato in grembo per 9 mesi e di cui conoscevi l’esistenza ben prima della positività del test.
Lei non ha mai fatto “la la la, ma ma ma, pa pa pa”.
Da piccola non indicava un oggetto dicendo “QUELLLLO!” e guardandoti con insistenza finché non glielo davi. No, lei si arrampicava sulla vetrina e, mettendosi spesso in situazioni di pericolo, cercava di arrangiarsi da sola e tu, all’inizio, era pure orgogliosa della sua indipendenza.
Finché, iniziando a confrontare le tappe dello sviluppo dei tuoi pargoli, hai visto che le differenze erano troppe e la lallazione non arrivava mai.
Così, come sapevi che lei c’era anche quando tuo marito diceva “È troppo presto, non puoi saperlo!”, allo stesso modo, quel filo invisibile che ti lega a lei, a loro, ti ha fatto capire che il tuo essere madre non sarebbe più stato lo stesso, non migliore, non peggiore, solo diverso.
Sicuramente più sofferto, soprattutto all’inizio, ma, dimmi, quale madre non soffre per i figli?
Alcuni sostengono che una madre nasce con il primo figlio. Io non sono d’accordo.
Una madre nasce milioni volte:
con le due lineette rosa con la prima nausea del mattino, con il primo calcio che ti toglie il respiro, con la prima voglia di cetrioli e gelato, con le lunghe ore in sala travaglio, con i punti contati in silenzio mentre stringi il tuo piccolo al seno, con il suo primo sorriso, con la lallazione, con i primi passi, con il primo calcio alla palla, con le prime parole stentate, con la prima pappa sputata dritta sulla tua faccia, con il primo bagno al mare, con lo stupore dell’erba sotto i piedi con le notti in bianco per le coliche e per i primi dentiti, con le ninnenanne stonate, con la prima pipì nel vasino, con il primo regalo per la festa della mamma, con il primo amore, con la prima poesia recitata tutta d’un fiato, con la prima bicicletta con il primo voto a scuola, con la prima notte a casa degli amici, con l’esame di maturità e tutti gli esami all’università, con la prima delusione d’amore, con la patente, con il giorno del matrimonio, con il primo nipote…
Tutte le prime volte ti rendono mamma, sia quelle gioiose, ma anche quelle dolorose.
Tutte le prime, ma anche le seconde, le terze, le quarte… Un’infinità di volte in cui guardando i tuoi figli penserai:
HO DAVVERO DATO IO LA VITA A QUESTA CREATURA MERAVIGLIOSA, COSÌ SIMILE A ME, COSÌ DIVERSA DA ME?
Oppure lo consolerai carezzandogli la testa e sussurrando: “So che stai male, lo capisco, ma anche se ora ti sembra impossibile, starai bene”, mentre dentro di te pregherai: “Dio, non farlo più soffrire, colpisci me, ma fa stare bene lui”.
Mamma mille volte al giorno, gioendo e soffrendo con loro, che sia per un ottimo risultato a scuola o per un “Co Ca” sussurrato a 8 anni, per un amico che ti ha deluso o per un Meltdown.
Una mamma è la creatura più poliedrica e adattabile del mondo, in grado di passare dal riso al pianto, dall’incitamento alla consolazione nella frazione di un secondo, semplicemente guardando quei figli che ha di fronte e adattandosi al loro stato d’animo.
Te lo sei ripetuta mille volte: non ci sono mamme speciali, ci sono mamme che amano i priori figli ogni giorno della loro vita.
Ti auguro di avere sempre la forza di sorridere e di rialzarti, anche quando vorresti solo piangere, e di essere abbastanza di tutto per loro, soprattutto nei momenti in cui sarai niente per te stessa e per il resto del mondo.
Buona Festa della Mamma, Katy, ma ricorda: questo è un giorno, ma tu sei mamma tutto l’anno!
Fare la mamma non è un lavoro, è la più grande gioia della tua vita e lo fai, lo sei ogni giorno e lo sarai sempre, fino al tuo ultimo respiro e oltre.
(Immagine di repertorio di un anno fa quando il problema più grande erano i capelli selvatici)”
(Katjuscia Zof)
Fotografia di repertorio di un anno fa quando il problema più grande erano i capelli selvatici
Discrimino le piastrelle bianche a favore di quelle nere.
Divido mentalmente le parole in sillabe sperando che siano dispari ché la perfezione dei numeri pari mi infastidisce quanto un pezzetto di popcorn incastrato tra i denti.
In altre parole: lo stato di ansia sta raggiungendo vette mai toccate nemmeno da Messner, quando, appeso alla cima, declamava con vigore “Altizzima, purrrizzima, Levizzima!”
Nella mia vita le uniche cose purrrizzime sono le goccine buone che centellino con parsimonia, perché la strada per l’inferno dell’assuefazione è lastricata di tante piccoli dosi e io ho ancora abbastanza forza da non volermi arrendere al benessere chimico.
Io mi merito un po’ di serenità, di pace interiore, un’intera notte di sonno e un battito cardiaco regolare, “perché io valgo”.
(A questo punto immaginatemi fare il movimento di testa della Schiffer, ma con un cesto di capelli riccissimi e le vertebre cervicali che scricchiolano).
E così ci ho dato un taglio… ai capelli, ovviamente, perché è risaputo che, se una donna decide di darsi una regolata alla zucca, comincia dalla chioma e poi procede per gradi a sbobinare i neuroni. Considerato che il crollo delle sinapsi è ormai attivo da diversi anni, non dovrei metterci poi molto: per la fine della prossima settimana di essere una donna nuova di zecca, ma nel frattempo viaggio con la gioia artificiale nello zaino e, quando sento che le lacrime stanno prendendo il sopravvento, stringo il mio amuleto bianco e verde tra le mani pensando: “Triplo T, non mi avrai!” e lo ripongo nella tasca più interna.
Resto dell’idea che meglio un vasetto di Nutella oggi che una boccetta di antidepressivo domani, ma in alcuni frangenti la mora spalmabile non basta più. Non viene abbandonata, ma demansionata: mia nonna, ogni volta che doveva prendere uno sciroppo, pretendeva una globulosa zuccherata e citava Pinocchio: “Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!… Mi purgherei tutti i giorni”. Così uso la mia panacea per addolcire il gusto amaro della medicina che guarisce l’umore, ma ferisce l’orgoglio.
Perché per quanto mi riguarda non mi vergogno a dire che prendo un farmaco per cercare di stare meglio, ma mi ferisce essere scivolata sulla buccia di banana del 2020, avendo superato con le mie sole forze il 2014, anno della diagnosi di Ariel, e soprattutto il 2008, quando a ormai 33enne ed emula di quello che portava una corona di spine, presi la via Crucis del matrimonio.
Mi rendo conto che questo post segue l’invisibile filo che lega i miei pensieri, un mito a ruoli invertiti: il mio Teseo barbuto da anni cerca di capire cosa mi frulla per la testa, mentre sgomitolo persa nel mio labirinto di idee, sogni, frustrazioni.
È decisamente un articolo sconclusionato arricciato in capricci con imprevedibili colpi di sole su un base scura.
Sto male? Sicuro! Vi sembra il testo di una che sta bene?, ma almeno cerco di riderci su e mentre mi guardo riflessa nel vetro della finestra della cucina, ho un nuovo pensiero ossessivo: esiste una spuma per capelli ricci che li definisca senza avere l’effetto incollante del Bostik?
* Peramordiddio, prima di iniziare a difendere quel sant’uomo di mio marito dalle accuse di calunnia da me perpetrate: sono ironica. È una di quelle affermazioni del tipo: è sempre stato bene, finché non è andato in ospedale. La diagnosi non è l’inizio della malattia, ma il riconoscimento della stessa, iniziata chissà quando nella notte dei tempi o addirittura nata con noi e manifestatasi un po’ alla volta. E, sì, è una banale generalizzazione, ma se dovete farmi la punta alle matite, ditelo subito che prendo ancora un paio di goccine buone. Eccheccazzo, aiutano a stare meglio, ma non fanno miracoli!
Un giorno ti guardi attorno e scopri di essere diventata autisticocentrica: il correttore riconduce tutte le parole con prefisso aut- alla condizione di tua figlia; magari esci una sera con gli amici per svagarti un po’ e ti ritrovi a parlare di percorsi di abilitazione, di diagnosi precoce, di sensibilizzazione.
E poi…
Ti senti un involucro di carne, muscoli, ossa a proteggere una massa pesante di ansia e preoccupazioni.
Soprattutto, quando hai avuto una brutta giornata, perché il capo in ufficio non apprezzato la tua proposta o il figlio maggiore ha combinato una marachella: ti senti vuota come uno degli otri di vino buono alla nozze di Cana e sussurri quasi con vergogna:
“Non è colpa dell’autismo, oggi non c’entra niente…”
Come se l’autismo fosse una persona della famiglia. O meglio è una persona della famiglia: è tua figlia, quella creatura bionda che ti guarda fiduciosa, che ti sale in braccio come quando aveva 4 anni e che tu ora fai fatica a sollevare. Come può essere colpa sua? Non c’è colpa, c’è solo da rimboccarsi le maniche, abbracciare e rispettare, studiare e imparare dal cuore, farsi emozionare dai libri di coloro che parlano delle loro esperienze, razionalizzare le lacrime, emozionare i dati statistici.
E poi…
Leggi, studi, osservi, registri e, forse, impari.
E intanto…
Il figlio maggiore cresce da solo. Un attimo fa era un nanerottolo che ti chiedeva preoccupato:
“Mamma, Alielel sta male?”
e ora è un ragazzino che si entusiasma con lei e per lei, che si preoccupa quando gli altri non la capiscono, che con forza e a pugni stretti avverte:
“Non è scema, è autistica!”
Sua sorella è l’autismo, l’autismo è sua sorella. Se usare la parola normalità non fosse un azzardo per qualsiasi vita, potremmo dire che questa è la sua normalità: difendere i diritti della sorella, contare per darle prevedibilità, rinforzare i suoi comportamenti positivi.
E lui?
Lui non chiede mai niente per se stesso, è un po’ sbadato, a volte maldestro, ma fin troppo responsabile e attento a non mostrare mai le proprie debolezze.
Fino a un paio di settimane fa.
Una domenica sera abbiamo ricevuto la comunicazione che era stato spostato di sezione, ma non sapevamo quali amici avrebbero affrontato con lui il nuovo viaggio alle scuole medie. E, via!, parte il tamtam delle mamme per scoprire le nuove formazioni: 2 amici su 5 sono ancora in classe con lui. Bene, ma non benissimo. Tutti e 6 sono destabilizzati da questo cambiamento, si erano crogiolati tutta l’estate nell’idea di essere insieme ancora per 3 anni. A quest’età 36 mesi sono una vita, si passa da bambini a ragazzi, cambia la voce, crescono peli in posti inaspettati, si scopre che “le femmine” non sono poi tanto male…
E poi…
Di punto in bianco, il gruppetto è spezzato, il labbro inferiore trema e una goccia di pioggia salata si forma all’angolo dell’occhio destro.
Guardi tuo figlio, lo abbracci godendoti il suo profumo e, chiedendoti per quanto te lo lascerà ancora fare, gli spieghi che si può essere amici anche frequentando sezioni diverse, che ci sono il calcio e le feste di compleanno e le partitelle in giardino.
La testa bruna, che ti aveva tanto stupita al momento della nascita e che, a differenza della sorella, è sempre rimasta della medesima nuance, annuisce poco convinta.
E allora dimentichi l’autismo, te ne freghi dello sconquasso che sei certa che ne nascerà e ti lanci in una provocazione:
“Ti dimostro che si può essere amici anche senza essere in classe insieme.
Organizziamo il pigiama party dell’amicizia!”
Così venerdì scorso mi sono ritrovata in casa 3 undicenni e 3 decenni in scadenza, rumorosi, ridanciani, divertenti, sciocchi come si può essere solo a quell’età.
Accampati in soggiorno hanno giocato alla Play Station e guardato film fino alle 4. Sul tavolo acqua e patatine per lo spuntino di mezzanotte e nel cuore tanta voglia di stare insieme.
Quando diventavano troppo molesti, entravo in soggiorno camuffando il sorriso nel mio sguardo più severo: “Abbassate la voce, perché se si sveglia Ariel vedete un mostro ben più pericoloso dei dinosauri di Jurassic Park!”
Alcuni occhi rivolti al cielo, altri in basso, tutte le bocche a mormorare: “Sì, sì, hai ragione!”, salvo poi riprendere a ridacchiare appena uscita dalla porta.
Mentre dormivano e il sole iniziava a filtrare dalle saracinesche, ho preparato la loro colazione: Davide si era tanto raccomandato:
“Mamma, devi fare una colazione continentale”,
ossia piena di ogni ben di dio: latte, Nesquik, succo, the, merendine, biscotti, Nutella, marmellata, fette biscottate, pane in cassetta…
Ariel, svegliatasi alle 7, era stata spedita dai nonni per stare più tranquilla e non svegliare i nottambuli.
Se ne sono andati alla spicciolata, dopo la colazione ed un ultima partita: la casa è tornata quella di sempre, piena solo delle stereotipie di Ariel e delle voci dei doppiatori alla televisione.
Davide mi ha abbracciata e non ha detto niente.
E poi…
Poi escono da scuola, tutti e sei con la scarpa sinistra slacciata, sei ragazzi non più bambini che hanno scelto come simbolo della loro amicizia un fiocco sciolto, una cordicella che pende libera di essere se stessa.
E poi…
Provo a portare in giro per la città la mia scarpa slacciata, alla disperata ricerca di un reflusso adolescenziale, ma non mi godo il momento: ogni stagione ha una sua bellezza, un’atmosfera che il sole illumina diversamente.
L’autunno non può essere la primavera e io non posso essere una decenne in scadenza, ma posso guardare il mondo con gli occhi di mio figlio è stupirmi per le brume, i rossi e gli arancioni, gioire per il profumo delle castagne ed essere grata per tutto quello che ho, anziché piangere per quello che manca.
Vagolare nel parcheggio del centro commerciale con le borse della spesa che tagliano le mani e non trovare l’auto, nonostante l’assoluta certezza di averla messa in un quel posteggio;
vedere uno dei propri incubi ricorrenti divenire realtà;
arrendersi e prendere le chiavi dallo zaino per attivare l’apertura centralizzata, sperando che si accendano i lampeggianti, e illuminarsi d’immenso;
partire con passo tronfio e baldanzoso, perché in possesso della controprova di non essere completamente deficiente: il posto era quello giusto, era l’auto ad essere sbagliata:
SONO VENUTA CON QUELLA DI MIO MARITO, NON CON LA MIA!
Mo’ vado a prendermi una camomilla perché ne ho di bisogno.
Un tempo pensavo che fosse semplicemente catartico, ora so che è il mio modo di dire al mondo “Guardami, cazzo, ci sono anch’io!”
In questi giorni non so più scrivere.
Mi dimeno come un’anguilla in una vasca troppo piccola.
I miei pensieri sono automobili impazzite su lastre di ghiaccio.
Non riesco a piangere, non riesco a scrivere.
Le parole non scritte sono come le lacrime non versate: un urlo in gola che le corde vocali non riescono a produrre, gocce salate nascoste dietro le palpebre.