Il mondo intorno a noi · La mamma "autistica"

Io ballo da sola

Il mio modo di essere non paga: dovrei fare buon viso a cattivo gioco e mostrarmi sempre d’accordo con  tutti, accettare tutte le richieste di amicizia, buttare like a casaccio, visto che alcuni misurano la vita in reactions, legarmi a questo o quel gruppo o meglio ancora a tutte le fazioni, tanto ciò che conta è avere il sostegno degli altri, poco importa se trenta secondi dopo saranno lì ad urlare “Muoia la Queen e tutti i Filistei!”

Non ne sono capace.

A me non interessa la visibilità, a me non frega una ceppaleppa delle statistiche di WordPress o di Facebook e do ragione a chi ha ragione.

Non sponsorizzo iniziative se non credo nei promotori, nella loro onestà intellettuale, nel loro desiderio di aiutare le persone autistiche a creare un mondo più inclusivo.

Non credo che un percorso di crescita possa essere valido se i diretti interessati non vengono coinvolti in prima persona: che si tratti di un convegno, di una marcia o di una nuova legge a tutela, le persone autistiche devono essere sempre coinvolte: una persona autistica per ogni genitore e viceversa. Sì, viceversa, perché se io non vivo l’autismo da dentro come mi è stato più volte detto, è altrettanto vero che una persona autistica che non ha figli o li ha con un funzionamento migliore di quello di Ariel, non può sapere quali sono le dinamiche complesse che vivono quotidianamente molte famiglie e le angosce del dopo-di-noi. Ed è quindi giusto che i genitori, prima, e i fratelli, poi, si facciano portavoce di talune istanze che non potrebbero essere completamente comprese da altri. Ognuno porta un pezzo di storia.

I professionisti? Non pervenuti, purtroppo, anzi no: ce ne sono alcuni che per pure ragioni di opportunità si legano alle persone autistiche e ORA chiedono che vengano ascoltate come se fosse un mantra, fino al prossimo business, fino al prossimo like. Per fortuna sono pochi, gli altri tacciono, di un silenzio colpevole che prima o poi porterà a vedere sottrarre quei diritti che le associazioni di genitori hanno impiegato decenni a conquistare. Nascosti dietro al buonismo del “sono fatti così”, all’etica del “non mi posso esporre sui social”, lasciano libertà di parola a tutti senza mai intervenire nelle discussioni tra parti, perché è più importante pubblicizzare il proprio studio piuttosto che dare un giudizio super partes, mentre le loro opinioni contano perché dovrebbero essere libere da preconcetti e perché loro più di tutti gli altri attori sociali coinvolti vedono il maggior numero di persone autistiche con funzionamenti diversi nel loro passaggio da bambini ad adolescenti ed infine adulti.

Non mi stancherò mai di dirlo: diamo lo stesso peso alle parole di quanti vogliano esprimersi in maniera competente e costruttiva sull’autismo, ma facciamo attenzione a non ridurre la condizione autistica a una mera “divergenza di pensiero”, perché non è così per tutti: per alcuni potrebbe essere così, per moltissimi altri no.

La comunicazione etica è bidirezionale: non deve enfatizzare, ma nemmeno sminuire; non deve essere abilista, ma nemmeno appiattire le difficoltà che molte persone autistiche e le loro famiglie affrontano ogni giorno.
Ho provato a lungo a costruire un ponte, non ne sono stata in grado.

Ora ballo da sola, anzi no, ballo con la Princess e tutto il mondo fuori.

Dancing Queen and Princess

P.S.: non mi riferisco nello specifico all’evento “IN&AUT FESTIVAL” che non ho visto di persona e che, invece, avrei seguito volentieri se ne avessi avuta la possibilità. Questo è solo lo sbrocco di un lunedì sera preceduto da una notte in bianco della nostra Princess Ballerina. E che la melatonina sia con voi. Cheers!

Il mondo intorno a noi

Non è tutto oro…

Non è tutto oro (o rosso o arcobaleno) ciò che luccica, ma neanche blu.

Già vedo le rotelline dei vostri cervelli neurodiversi l’un dall’altro che si mettono in moto all’urlo di: e questa, adesso dove cavolo andrà a parare?

Qua. Proprio qua. Ho usato una metafora e so che molte persone autistiche l’hanno correttamente interpretata come tale. So anche che molte altre persone autistiche l’hanno interprerata in modo letterale immaginando un cervello con tanti ingranaggi e non riuscendo ad andare oltre. E so pure che altre persone autistiche non riescono nemmeno a comprendere la parola cervello nella concezione di “mente”.

I racconti delle persone autistiche possono essere molto utili per chi ha un funzionamento diverso dal loro e vuole capire un caro, ma con le debite accortezze: ciò che alcune di loro raccontano fa parte del loro modo di essere e del loro vissuto,  ma non è un paradigma. È come se io da neurotipica pretendessi di estendere il mio vissuto a tutti.

Mi spiego meglio: quando sono triste mangio la Nutella. Con il cucchiaio. Direttamente dal vasetto. Se il principio applicato dalle persone di cui sopra fosse reale, essendo io neurotipica, implicherebbe che tutti i neurotipici facciano così.

In realtà sappiamo che alcuni fanno così, mentre altri reagiscono alle difficoltà in modo diverso.

Immagino che vi sia capitato più volte di chiedere un consiglio per situazioni in cui non riuscivate a cavarvela da soli. Avete seguito alla lettera i suggerimenti ricevuti o li avete adattati alla vostra esperienza di vita?

Ricordiamoci una cosa: un funzionamento diverso dal nostro non ci rende incompetenti nella gestione dei nostri ragazzi, poiché siamo le persone che li conoscono meglio, che hanno condiviso tutta la loro vita e, a meno che non si vogliano rinnegare decenni di psicologia e pedagogia, tutti noi, persone autistiche comprese, veniamo plasmati anche dal contesto, non solo dalla genetica. Sicuramente faremo degli errori, proprio come ne facciamo con il figli neurotipici, ma non possiamo prendere per buono tutto ciò che dicono gli advocate autistici, ma nemmeno sconfessarli a priori.

Noi genitori non dobbiamo stare sulle barricate a difendere queste persone o, al lato opposto, le nostre posizioni a prescindere, ma dovremmo essere sufficientemente razionali da chiederci: questo racconto mi può aiutare con mio figlio? Sì? No? Solo in parte?

Tra la demonizzazione e la santificazione di queste persone ci sono mille sfumature di razionalità.

Di che colore? Boh, fate vobis, purché non ricominciate a litigare anche per quello, ché ho appena finito di prendere il Gaviscon dopo le polemiche del 2 aprile.

Disagio personale per le polemiche sulla simbologia
Ariel · Il mondo intorno a noi

Strisce pedonali e 2 aprile

Non credevo che Ariel ne fosse affetta. Me lo avevano detto molti, ma io non ci credevo, non sembrava possibile ed invece…

Dovendo attraversare la strada, le ho detto di darmi la mano “perché si attraversa sulle strisce”.

E niente, eccola lì a fare passi da gigante per rimanere esattamente al centro delle strisce bianche.

Ho così scoperto che anche la Princess soffre di interpretazione letterale del linguaggio: finora non ne avevo avuto prove e da oggi dovrò fare ancora più attenzione a non usare modi di dire.

Per il 2 aprile, Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, vorrei un regalo: bandite la definizione “affetto da autismo” e “soffre di autismo” dai vostri vocabolari e, se avete qualche dubbio, leggete “In altre parole” del mio amico Fabrizio Acanfora, fonte inesauribile di etica comunicativa.

Io domani mi terrò lontana dai social, non perché sia contraria al 2 aprile o al blu, anzi!, è uno dei miei colori preferiti e lo avrei scelto indipendentemente da Autism Speaks, ma perché ho le palle piene di polemiche su ogni cosa che riguardi l’autismo. Lo dissi un anno fa e lo ripeto oggi: scegliamo un colore insieme, senza pregiudizi, date la possibilità di esprimersi a tutte le voci in campo, finiamola di fare il processo alle intenzioni delle persone e cerchiamo di trovare degli obiettivi comuni a tutta la popolazione autistica, consapevoli che questa potrebbe essere la parte più difficile dato che persone come Ariel hanno e avranno sempre esigenze diverse da quelle di persone come Giovanni Allevi (visto che adesso va di moda) e che un buon advocate dovrebbe pensare a tutti e non solo in chi si riconosce. E la ramanzina vale per tutti coloro che parlano di voi e noi, indipendentemente dal funzionamento neurobiologico.

In due parole: ci leggiamo il 3 aprile e fino ad allora, fate i bravi, perché la mia delusione sta toccando abissi più profondi della Fossa delle Marianne.

P. S. per tutti coloro che al momento della distribuzione dell’ironia erano in fila per la cazzimma: nell’incipit ho usato “affetta” e “soffre di” in maniera provocatoria.

Nella fotografia due bambini che si danno una mano ad attraversare le difficoltà della vita, mentre noi adulti litighiamo.

Il mondo intorno a noi

Non può succedere a me

“Se ti avessero detto che c’era una probabilità su 68 di avere un bambino autistico, avresti ugualmente voluto avere figli?”

In questi giorni ripenso spesso a questa domanda che mi fecero qualche anno fa e che riassume in poche parole le probabilità concrete a confronto con il controllo che l’essere umano si illude di avere sulla propria vita.

Molto spesso giustifichiamo i nostri comportamenti dietro alla più illusoria delle giustificazioni: NON PUÒ SUCCEDERE A ME.

Le cose spiacevoli, o addirittura brutte, sembrano essere appannaggio degli altri: la mente umana crea degli schemi protettivi che consentono alla nostra specie di progredire, nonostante sappiamo che le statistiche sono lì a ricordarci che gli altri spesso siamo noi.

Così, quando potremmo aiutare il “destino” a non essere nefasto, preferiamo mantenere i nostri comportamenti cazzoni e scrivere la giustificazione alla pagina 5 del libretto della nostra vita.

Stiamo al telefono mentre guidiamo, non allacciamo i bambini al seggiolino, impostiamo il navigatore durante il percorso, nascondendoci dietro un banale “in 20 anni di patente non ho mai avuto un incidente.”

Non andiamo agli screening di prevenzione, perché stiamo bene e non abbiamo familiarità con quella particolare tipologia di cancro.

Non teniamo la mascherina, perché il Covid non esiste e i sanitari, quei maledetti!, mentono e, se anche dovesse venirci, è poco più di un’influenza. Pace e amore per tutti coloro che arriveranno in terapia intensiva e non troveranno un respiratore disponibile, perché a noi non succederà mai: noi siamo sani come pesci ed è ora di finirla con la dittatura sanitaria.

Tante storie per la chiusura delle piscine e delle attività sportive per i ragazzini: che giochino in giardino, purché la serie A continui!

Chissenefrega del surriscaldamento del pianeta: quando le cose saranno ormai al tracollo, noi saremo morti e sepolti.

Quello che accomuna questi pensieri è la percezione di essere immortali e il pronome personale IO. Non c’è mai un NOI, il prezioso VOI + ME viene ignorato e il benessere della collettività viene posto in secondo piano rispetto alle proprie esigenze personali.

E fino ad un certo punto è pure comprensibile: l’essere umano è biologicamente egoista, i bambini sono le creature più egocentriche del mondo, ma conosco adulti che sono rimasti tali, incapaci di guardare al di là del proprio orticello.

Non è detto che se  qualcosa non ci tocca direttamente, non possa divenire in futuro un nostro problema.

Una volta una persona mi disse che il mio essere madre di una bambina disabile “non poteva essere un suo problema e che avrebbe trovato una soluzione alla mia situazione”. Quel “soluzione” puzzava di locuzione nazista: la soluzione finale del problema Zof.

Un’altra persona mi disse che se mia figlia doveva continuare a “rovinare la festa a tutti sarebbe stato meglio se fossimo rimasti a casa”.

In fondo la disabilità è un problema degli altri, le battaglie dei caregivers e degli advocates sono illusori tentativi di cambiare un mondo che non tange direttamente, finché non si ha il “problema” in casa.

Sicuri? Sicuri, sicuri, sicuri?

Siamo proprio certi che lasceremo questo mondo sulle nostre gambe e in pieno possesso delle nostre facoltà mentali?

Dobbiamo imparare ad essere meno egoisti ed assolutisti, ad aprire il cuore e la mente alla possibilità che la vita potrebbe avere un brusco cambiamento di traiettoria.

La disabilità non va stigmatizzata, non è un “problema degli altri”, va compresa e valorizzata, va stimolato l’inserimento delle persone disabili nei tavoli di lavoro, vanno ascoltate le loro voci, si devono accogliere le loro richieste, perché il loro mondo domani potrebbe essere il nostro o quello dei nostri figli.

Come disse una persona saggia: “disabili non solo si nasce, ma anche si diventa.”

In fondo basta un po’ di ghiaccio sulla curva sbagliata, affinché il mondo si capovolga e cambi definitivamente prospettiva.

Ovviamente spero che nessuno di voi abbia mai un incidente stradale, ma come sarebbe bello se il cuore di alcuni avesse un frontale con la dura realtà che molti vivono quotidianamente!

Oggi niente immagine, perchè vorrei che vi concentraste sul contenuto.

Il mondo intorno a noi

Le pedine

Il Direttore Generale e il Direttore Commerciale parlano di voi e prendono decisioni che vi riguardano personalmente senza ascoltare la vostra opinione. Quando tutto è definito vi comunicano che da domani avrete una nuova mansione.
Il dentista decide di non farvi l’anestesia, perché ritiene che siate in grado di sopportare il dolore, nonostante voi gli stiate dicendo che avete tanto male.
Voi volete un vestito animalier, mentre la commessa vi propone solo abiti verdi perché ritiene che sia che il vostro colore, invece voi lo odiate con ogni fibra del vostro essere.
Quanto vi fa incazzare questa cosa? Tanto? Tantissimo? Poco?
A me farebbe salire il crimine a vette inaudite, poiché mi sentirei una pedina nelle mani di persone che, senza alcun interesse per me come essere umano, decidono della mia vita.
Allora perché non ascoltare ciò che hanno da dire le persone autistiche? Qual è il problema nell’ascoltare le loro voci?
Se desiderano essere chiamati “autistici” o “persone autistiche”, anziché “persone con autismo” o “affette da autismo”, perché non accogliere la loro richiesta? Se desiderano cambiare il colore dell’autismo, perché non provare a mediare tra le parti?
Potremo anche non essere d’accordo su tutto (a me per esempio il blu piace tantissimo), magari potremo non condividere il medesimo stile comunicativo, ma almeno proviamoci!
I muri delle diatribe chiudono orizzonti ed opportunità di crescita reciproca, mentre noi tutti dovremmo costruire una società in cui non ci sia bisogno della parola “inclusione”.

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Foto dal web