"L'amore non conosce barriere. Salta ostacoli, oltrepassa recinzioni, attraversa pareti per arrivare alla sua destinazione, pieno di speranza." – Maya Angelou
Dovrei raccogliere le foglie, invece mi perdo in esse.
Ognuna è diversa per forma e colore, fiera dell’autunno, una scricchiolante armonia di gialli, rossi, arancioni, marroni ..Crac, ciaf, crac, ciaf…
Cammino… crac, ciaf, crac, ciaf… e lancio la palla a Baloo che la afferra al volo alzando una coltre marrone e mi godo il momento: noi due e milioni di sfumature calde ad avvolgerci.
Questa splendore, praticamente un quadro in 4D, è dovuto alla diversità, al fatto che non esiste foglia simile ad altra e mi chiedo: perché noi esseri umani dobbiamo urlare al mondo che siamo tutti uguali, quando ciò che ci rende unici è la diversità?
La diversità ci arricchisce, ci dà modo di confrontare esperienze e vissuti, di crescere, di evolvere.
Purché ci sia rispetto e amore.
Non siamo tutti uguali, siamo tutti diversi e questo è meraviglioso.
Li vedo arrivare con la coda dell’occhio, mentre Ariel cerca di afferrare un brandello cobalto. Le sue scarpe bianche salgono in alto, sempre in più in alto, oltre il pendio arancione e le bande iridescenti virano al blu. In alto uno specchio del pallido satellite.
Lei ride felice.
I due si appoggiano ad uno dei montanti in legno, sotto un tappeto di umide foglie gialle, sopra rami intirizziti e sprazzi di cielo.
Li osservo: riconosco il viso stanco del genitore, gli occhi evasivi di chi non vuole parlare o giustificarsi. Lo sguardo laterale del bambino sceglie Ariel, o meglio, l’altalena di Ariel. Il seggiolino di fianco è libero, ma lui vuole insistentemente quello con cui la Princess sta sfidando tutte le leggi di gravità.
Lei ride, lui è imbronciato.
Io spingo e guardo il padre, la mano ferma sull’avambraccio del figlio, lo sguardo oltre la sua testa per non rinforzare il comportamento del moretto.
Vorrei dire a quel papà: “Lo so, ti capisco. Dammi ancora qualche minuto e la farò scendere”, ma non dico nulla, respinta dalla chiusura della sua comunicazione non verbale.
Ariel ride, lui è impaziente, strattona il padre e declama a gran voce la sua scelta:
” IO VOGLIO QUELLA! LA BAMBINA NON PUÒ STARE LÌ.”
Il padre ignora, io continuo a spingere.
Quando il bambino si calma, inizio a contare al contrario: “20-19-18… “
Il bambino si raddrizza e inizia a sorridere.
“10-9-8… “
Le sue mani si muovono veloci…
“3-2-1 e… Zeroooo! Ariel scendi!”
Ariel sorride e mi dà la mano, lui saltella felice verso quel seggiolino che lo porterà fin sulle nuvole ed oltre.
Il padre non cerca mai il mio sguardo, resta sempre chiuso in se stesso. Il mio timido cenno di saluto cade nel vuoto, Ariel indica lo scivolo, il bambino ride sull’altalena.
La luna è sparita, forse infastidita dall’incontenibile gioia dei due bambini volanti.
Il Collio friulano in autunno (per una volta ho fatto uno scatto decente💪)
Un giorno ti guardi attorno e scopri di essere diventata autisticocentrica: il correttore riconduce tutte le parole con prefisso aut- alla condizione di tua figlia; magari esci una sera con gli amici per svagarti un po’ e ti ritrovi a parlare di percorsi di abilitazione, di diagnosi precoce, di sensibilizzazione.
E poi…
Ti senti un involucro di carne, muscoli, ossa a proteggere una massa pesante di ansia e preoccupazioni.
Soprattutto, quando hai avuto una brutta giornata, perché il capo in ufficio non apprezzato la tua proposta o il figlio maggiore ha combinato una marachella: ti senti vuota come uno degli otri di vino buono alla nozze di Cana e sussurri quasi con vergogna:
“Non è colpa dell’autismo, oggi non c’entra niente…”
Come se l’autismo fosse una persona della famiglia. O meglio è una persona della famiglia: è tua figlia, quella creatura bionda che ti guarda fiduciosa, che ti sale in braccio come quando aveva 4 anni e che tu ora fai fatica a sollevare. Come può essere colpa sua? Non c’è colpa, c’è solo da rimboccarsi le maniche, abbracciare e rispettare, studiare e imparare dal cuore, farsi emozionare dai libri di coloro che parlano delle loro esperienze, razionalizzare le lacrime, emozionare i dati statistici.
E poi…
Leggi, studi, osservi, registri e, forse, impari.
E intanto…
Il figlio maggiore cresce da solo. Un attimo fa era un nanerottolo che ti chiedeva preoccupato:
“Mamma, Alielel sta male?”
e ora è un ragazzino che si entusiasma con lei e per lei, che si preoccupa quando gli altri non la capiscono, che con forza e a pugni stretti avverte:
“Non è scema, è autistica!”
Sua sorella è l’autismo, l’autismo è sua sorella. Se usare la parola normalità non fosse un azzardo per qualsiasi vita, potremmo dire che questa è la sua normalità: difendere i diritti della sorella, contare per darle prevedibilità, rinforzare i suoi comportamenti positivi.
E lui?
Lui non chiede mai niente per se stesso, è un po’ sbadato, a volte maldestro, ma fin troppo responsabile e attento a non mostrare mai le proprie debolezze.
Fino a un paio di settimane fa.
Una domenica sera abbiamo ricevuto la comunicazione che era stato spostato di sezione, ma non sapevamo quali amici avrebbero affrontato con lui il nuovo viaggio alle scuole medie. E, via!, parte il tamtam delle mamme per scoprire le nuove formazioni: 2 amici su 5 sono ancora in classe con lui. Bene, ma non benissimo. Tutti e 6 sono destabilizzati da questo cambiamento, si erano crogiolati tutta l’estate nell’idea di essere insieme ancora per 3 anni. A quest’età 36 mesi sono una vita, si passa da bambini a ragazzi, cambia la voce, crescono peli in posti inaspettati, si scopre che “le femmine” non sono poi tanto male…
E poi…
Di punto in bianco, il gruppetto è spezzato, il labbro inferiore trema e una goccia di pioggia salata si forma all’angolo dell’occhio destro.
Guardi tuo figlio, lo abbracci godendoti il suo profumo e, chiedendoti per quanto te lo lascerà ancora fare, gli spieghi che si può essere amici anche frequentando sezioni diverse, che ci sono il calcio e le feste di compleanno e le partitelle in giardino.
La testa bruna, che ti aveva tanto stupita al momento della nascita e che, a differenza della sorella, è sempre rimasta della medesima nuance, annuisce poco convinta.
E allora dimentichi l’autismo, te ne freghi dello sconquasso che sei certa che ne nascerà e ti lanci in una provocazione:
“Ti dimostro che si può essere amici anche senza essere in classe insieme.
Organizziamo il pigiama party dell’amicizia!”
Così venerdì scorso mi sono ritrovata in casa 3 undicenni e 3 decenni in scadenza, rumorosi, ridanciani, divertenti, sciocchi come si può essere solo a quell’età.
Accampati in soggiorno hanno giocato alla Play Station e guardato film fino alle 4. Sul tavolo acqua e patatine per lo spuntino di mezzanotte e nel cuore tanta voglia di stare insieme.
Quando diventavano troppo molesti, entravo in soggiorno camuffando il sorriso nel mio sguardo più severo: “Abbassate la voce, perché se si sveglia Ariel vedete un mostro ben più pericoloso dei dinosauri di Jurassic Park!”
Alcuni occhi rivolti al cielo, altri in basso, tutte le bocche a mormorare: “Sì, sì, hai ragione!”, salvo poi riprendere a ridacchiare appena uscita dalla porta.
Mentre dormivano e il sole iniziava a filtrare dalle saracinesche, ho preparato la loro colazione: Davide si era tanto raccomandato:
“Mamma, devi fare una colazione continentale”,
ossia piena di ogni ben di dio: latte, Nesquik, succo, the, merendine, biscotti, Nutella, marmellata, fette biscottate, pane in cassetta…
Ariel, svegliatasi alle 7, era stata spedita dai nonni per stare più tranquilla e non svegliare i nottambuli.
Se ne sono andati alla spicciolata, dopo la colazione ed un ultima partita: la casa è tornata quella di sempre, piena solo delle stereotipie di Ariel e delle voci dei doppiatori alla televisione.
Davide mi ha abbracciata e non ha detto niente.
E poi…
Poi escono da scuola, tutti e sei con la scarpa sinistra slacciata, sei ragazzi non più bambini che hanno scelto come simbolo della loro amicizia un fiocco sciolto, una cordicella che pende libera di essere se stessa.
E poi…
Provo a portare in giro per la città la mia scarpa slacciata, alla disperata ricerca di un reflusso adolescenziale, ma non mi godo il momento: ogni stagione ha una sua bellezza, un’atmosfera che il sole illumina diversamente.
L’autunno non può essere la primavera e io non posso essere una decenne in scadenza, ma posso guardare il mondo con gli occhi di mio figlio è stupirmi per le brume, i rossi e gli arancioni, gioire per il profumo delle castagne ed essere grata per tutto quello che ho, anziché piangere per quello che manca.