Ci penso e ci ripenso. Cerco di richiamare immagini alla mia mente, ma niente.
Il vuoto più totale.
Nella mia mente c’è stato un black out lungo diciotto mesi.
Un anno e mezzo di ricordi annullato, un anno e mezzo di vita cancellato.
Non ricordo Ariel, non ricordo Davide.
Non so come stavo: non so se ero triste, rabbiosa, apatica.
Non so cosa facevo durante il giorno, non so dove trovavo la forza per scendere dal letto e affrontare le mille attività del quotidiano. Io non so nulla tranne che, nonostante tutto, la mia vita è andata comunque avanti, sebbene non me la ricordi.
La mia unica certezza è che la deflagrazione della diagnosi di Ariel ha cambiato la mia vita per sempre. In pochi mesi i capelli sono diventati completamente grigi.
La mia vita ha uno spartiacque tagliente come un bisturi, duro come il diamante, profondo come la Fossa delle Marianne.
So di avere acquistato molti libri sull’autismo in quei giorni e di averli dolorosamente letti tutti. Lo so perché le pagine sono tutte ondulate: le lacrime versate le hanno irrimediabilmente rovinate.
Un po’ alla volta sono riemersa dal mio dolore, ho iniziato a rimboccarmi le maniche, a cercare le terapie migliori per Ariel.
Quando era piccola speravo nel miracolo del linguaggio. Ora sogno la sua voce: una Ariel vocale mi viene spesso a trovare in sogno, ha una voce gialla, arrugginita, ma a suo modo perfetta.
Sono consapevole che lei non parlerà mai e devo sviluppare la sua comunicazione: devo darle la possibilità di esprimere i suoi bisogni, i suoi sogni. Una bambina di 8 anni ha ormai un vissuto importante alle spalle e non voglio credere, non posso accettare che tutto il suo mondo sia rinchiuso in un quadernetto ad anelli con venti immagini. I suoi silenzi inducono a sottovalutare la sua comprensione e la sua intelligenza e questo dovrebbe mortificare noi, non lei!
Crescendo, le preoccupazioni cambieranno con lei: noi genitori dovremo affrontare la scelta della scuola secondaria, sperare in un fantomatico, ma assai improbabile inserimento nel mondo del lavoro e costruire qualcosa di organizzato e funzionale per quando non ci saremo più.
La vita di un genitore “autistico” è scandita da diverse fasi: il buio della diagnosi, la forza della consapevolezza dell’infanzia quanto tutto sembra possibile trovando i giusti terapisti, le preoccupazioni dell’adolescenza, la serenità della giovinezza dell’adulto quando il percorso è consolidato ed infine i dubbi paralizzanti del “dopo di noi”. Chi si occuperà di lei? È giusto che lo faccia Davide? Ci sono centri adatti al suo accoglimento? Le notizie di cronaca riportano spesso abusi sui nostri ragazzi ed ogni volta è una ferita al cuore dell’intera comunità autistica.
I genitori delle persone autistiche sono stanchi, soffrono spesso di depressione o solitudine e i loro pensieri sono costantemente incentrati sulla loro creatura, mentre gli altri figli crescono troppo in fretta.
Le famiglie hanno bisogno di sostegno e supporto per TUTTA la vita di una persona autistica.
Le iniziative per aiutare queste persone devono coinvolgere i portatori di interesse ed essere realmente inclusive.
Come aiutare queste famiglie?
Sono solo una mamma, ma nell’arco degli anni mi sono fatta alcune idee:
- Per prima cosa è necessario fare una mappatura del territorio, capire quante persone autistiche sono presenti nel Comune di residenza e le loro caratteristiche anagrafiche, nonché il loro livello di gravità. Solo conoscendo le persone autistiche e le loro famiglie si possono proporre progetti adeguati alle loro esigenze che potrebbero essere completamente diverse da quanto si potrebbe immaginare in via ipotetica;
- Sarebbe utile preparare uno starter-kit per i genitori delle famiglie neo-diagnosticate, un elenco di tutti i loro diritti e doveri e delle procedure da attivare a tutela dei figli. Proprio in questi giorni ho letto di una mamma che pensava che la visita con il neuropsichiatra dell’azienda sanitaria le desse automaticamente accesso alle agevolazioni della legge 104: non sapeva di dover fare domanda all’INPS e di doversi presentare in Commissione di accertamento. Dopo la diagnosi, i genitori hanno un dolore enorme da gestire e dovrebbe essere compito delle istituzioni sgravarli dalla fatica di dover reperire le informazioni su internet o nei gruppi Facebook, dove le informazioni trasmesse sono spesso errate;
- Coinvolgere le famiglie analizzando insieme a loro di cosa hanno bisogno. Alcuni potrebbero chiedere attività ludiche ed inclusive per i figli, ma altri potrebbero chiedere due ore di libertà in cui poter essere solo un uomo o una donna. La vita con un disabile grave non lascia spazio ad altro, spesso andare allo stadio o dalla parrucchiera è un lusso che i genitori non si possono concedere;
- Aprire degli sportelli di supporto psicologico per i genitori e i fratelli: i sibling sono bambini e ragazzi dal cuore enorme, molto empatici, ma anche fragili;
- Formare personale adeguato e gratificato dal lavorare con le persone autistiche: sono creature meravigliose, complicate e semplici allo stesso tempo, potrebbero arricchire la società se debitamente formate. Troppo spesso si sente parlare di abusi sui disabili: bisogna avere determinate caratteristiche personali e una grande preparazione professionale per far fronte ad alcune situazioni. Ebbene, secondo me sarebbe utile sottoporre i candidati a seri test psicoattitudinali prima di farli accedere ai corsi universitari di riferimento o prima dell’assunzione nei centri diurni, residenziali o riabilitativi;
- Costruire delle strutture per il “dopo di noi”: 1 nuovo nato su 68 è autistico. È compito delle istituzioni creare un futuro accogliente ed inclusivo per queste persone.
Un punto mi sta particolarmente cuore ed è il rispetto per le famiglie con persone autistiche. È di questi giorni la notizia di una famiglia che “ha deciso di abbandonare il figlio autistico di 11 anni”. Ho sentito e letto commenti di ogni genere, ma nessuno ha il diritto di giudicare il dolore di una famiglia spezzata. Ognuno affronta le difficoltà e il dolore per il proprio vissuto e per la propria forza morale, nonché per le risorse messe a disposizione dai singoli membri di una famiglia e dalla società. Un abbraccio consola e sostiene, un dito puntato contro distrugge e annichilisce. Una famiglia che “abbandona” un figlio di 11 anni è un fallimento per tutti noi. Per me, per te, per noi. Tutti abbiamo fallito.
Dal canto mio ora sono più consapevole, accetto la condizione di mia figlia, ma continuo a sognare Ariel che parla: so che al saluto finale sarà la sua voce gialla che sentirò come ultima cosa.

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