La mamma "autistica"

Anche la roccia

Anche la roccia si spacca.

Essendo fatta di tutt’altra materia era, pertanto, scritto che prima o poi avrei ceduto pure io.

Fatto sta che martedì mi sono svegliata con metà viso che non sentivo più mio.

Diagnosi: paralisi di Bell.

Non controllo l’occhio sinistro e la bocca va dove vuole, anche se fortunatamente mi dicono che parlo bene. Fortunatamente, perché, essendo logorroica, sarebbe stato drammatico non poter ammorbare più i miei contatti con quei timidi vocali da 10-15 minuti che amo inviare.

La cosa più fastidiosa è bere con la cannuccia. Magari in pubblico. Magari un cappuccino al bancone del bar.

Ora il mio sorriso è un ghigno… Sembro Joker, ma senza trucco, perché in questo frangente guardarmi allo specchio è più difficile che mai.

Un’amica mi ha ironicamente detto (per fortuna quando il gioco si fa duro, gli amici iniziano a sdrammatizzare!): “E tu non sorridere!”
Effettivamente non è un momento che brilli per positività (eccezion fatta per il Covid che ha già ripreso a rompere i cojoni): ci vuole molto determinazione per cercare qualcosa per cui sorridere, ma io ho deciso di farlo ugualmente.
Per Davide e Ariel, per la mia famiglia, per le mie amiche: per non spaventare e soprattutto per non farmi compatire.

Sorrido e ringrazio.
Perché poteva essere qualcosa di peggio.
Perché ho persone che mi vogliono bene.
Perché possono ancora mandare tanti vocali.
Perché qualcuno mi ha mandato la borraccia con la cannuccia più fescion del mondo e che mi sono divertita a personalizzare.

Quindi faccio un brindisi alla vita e come al solito… Andrà tutto bene un cazzo!

Davide

La sua strada

Auguro molte belle cose a Davide, soprattutto tanti Erasmus. Possibilmente Oltreoceano.

In questi anni gli ho più volte suggerito di pensare all’Università che vorrà frequentare. Quando protesta dicendo che è ancora presto, che non sa cosa vuole fare da grande, lo tranquillizzo con un serafico: “No, testolina puzzolente, amore bello della mamma dididududada, non alla facoltà, alla sede: Bologna, Milano, Napoli, Pisa, Roma… Metti più chilometri possibili tra te e noi, studia e goditi la vita.” E da un anno a questa parte aggiungo un sogghignante: “Tanto paga papà!”

Quel testone, però, insiste che vuole passare la sua vita con me e Ariel.

Gli ultimi mesi sono stati davvero pesanti, Ariel ci sta mettendo a dura prova e Davide soffre moltissimo per lei.

Ieri pomeriggio stavamo guardando la televisione, seduti vicini, mentre il caldo ci appiccicava le gambe e arricciava i capelli, quando Ariel ha lanciato l’urlo: le sue crisi cominciano sempre con quell’urlo che preso conosciamo troppo bene e che teniamo. Ci siamo guardati con la faccia preoccupata  e rassegnata con un unico pensiero: speriamo non si faccia male.

Corro di là e la trovo buttata a terra che tira testate al pavimento.

La metto in sicurezza e aspetto che passi la tempesta. Quando si placa, le do la tachipirina e un po’ di grissini, poi torno da Davide.

“Tutto bene?”, mi chiede.
” Sì, ragazzo, tutto bene, per ora…”
“Come ti posso aiutare?”
“Amore, l’unico modo che hai per aiutarmi è pensare al tuo futuro, costruire la vita che vuoi, trovare una tua dimensione.”
“Ma io voglio restare qua ad aiutarti con Ariel!”
“Lo so, ma accudirla è molto faticoso. Finché ci saremo papà ed io, non ti devi preoccupare, poi a suo tempo deciderai cosa fare. Qualunque sarà la tua decisione, devi sapere che potrai prenderti cura di lei con amore e pazienza solo se sarai soddisfatto della tua vita, altrimenti tua sorella sarà solo l’ennesimo peso, l’ultima fatica di tante. Solo se amerai ciò che sarai, potrai proteggerla dalla gente.”
“Ma io già lo faccio…”
“Lo so, però lei continuerà a fare le cose che le persone fanno difficoltà a capire e accettare e, crescendo, sarà ancora più difficile. Tu dovrai mantenere la calma e la testa alta, sempre. Ci vuole molto amore per affrontare gli sguardi giudicanti della gente, molta fiducia in se stessi per non farsi piegare dalla pietà, e li avrai solo se la tua vita sarà piena e soddisfacente…
Quindi. Dove andrai all’Università? Scegli bene, tanto paga papà.”

Il mio Ragazzo a Redipuglia
La famiglia "autistica"

Sempre Famiglia

Non hanno mai giocato insieme.
Non condividono amicizie o romanzi, anche se in passato lui le “leggeva” gli inbook in CAA.
A volte lei lo massacra e lui le urla dietro di smetterla di urlare, in una continua escalation di decibel casalinghi.
Tuttavia a loro modo si amano e si consolano.
Lui sarà sempre l’Agente Davide al servizio del Capitano Mamma per acchiappare la Fuggitiva Ariel.
Comunque andranno le cose, loro saranno sempre fratelli.
Davide e Ariel saranno sempre i miei Bambini, io sarò sempre la loro Mamma.
Noi tre saremo sempre Famiglia.
Anche quando lui avrà una sua famiglia e la Princess ed io avremo una badante per due.

Davide

Anche senza di me

Ci sono esperienze che avremmo dovuto fare come famiglia, noi quattro insieme.
Invece le cose sono andate diversamente e questa fotografia mi spezza il cuore, perché avrei voluto essere lì con voi.

Non voglio dire “così va la vita!”: qui il destino non c’entra, questo è libero arbitrio.

Raccolgo le lacrime in un fazzoletto e mi faccio consolare dalla consapevolezza che ti sia divertito dopo giorni di profonda tristezza.

Anche senza di me.

E se questo cordone che ci lega va tagliato, spero che sia indolore.

Soprattutto per me.

Davide a spasso con dei fantastici cagnoni
Il mondo intorno a noi

La domanda più difficile

La solitudine di una famiglia con un figlio disabile è roba forte che solo pochi riescono a guardare in faccia.

Più facile girarsi dall’altra parte e usarla come termometro del proprio benessere.

Non compatiteci: la pietà di taluni sguardi è discriminante tanto quanto il fastidio o la paura ed è anche subdola, poiché inconsapevole e permeata da un senso di perbenismo difficile da scalfire.

La solitudine rosicchia l’anima giorno dopo giorno e alla fine lascia dietro di sé famiglie stremate dalla fatica e dalla consapevolezza che domani quella creatura tanto amata, protetta, accudita verrà considerata solo un peso sociale, ridotta ad una diagnosi , spersonalizzata di tutte le sue qualità, inquadrata nei propri deficit.

Dateci la possibilità di farvi conoscere i nostri figli e capirete che sono molto di più quanto possiate immaginare.

Avete mai invitato uno di noi a prendere un caffè? Ma non in un ipotetico domani, adesso, subito ché il dolore è impaziente, non aspetta che voi siate liberi da impegni.

Non cambiate strada quando ci incontrate: possiamo essere faticosi, noiosi, pesanti, monotematici, ma quelle quattro chiacchiere scambiate con voi potrebbero essere le nostre uniche interazioni con adulti senzienti della giornata.

Mi commuove chi ha il coraggio di porgerci la domanda più difficile del mondo:

“COME STAI?”

Difficile per chi la rivolge, poiché è una domanda aperta, subdola che potrebbe avere mille risvolti tra i quali una slavina di lagna o un mare di dolore; difficile per noi che la riceviamo che, non conoscendo il reale interesse alla nostra risposta, spesso non abbiamo il coraggio di dire la verità. Così, sorridendo, ci rifugiamo in un asintomatico “Bene, dài!”, la tristezza negli occhi celata dagli occhiali scuri.

Ma fatela questa domanda!

Mal che vada perderete cinque minuti ad ascoltare un genitore sfiancato dalla routine (tanto difficilmente abbiamo più tempo a disposizione), ma potreste alleviare un po’ la nostra fatica, perché condividere un peso, anche per solo qualche metro, rende la vita meno pesante, anche a noi che a qualcuno piace pensare dotati di superpoteri. In questa ottica possiamo affrontare tutto più facilmente: la fatica è meno fatica, il dolore è meno dolore, gli obiettivi raggiunti dai nostri figli sono merito nostro (invece sono merito soprattutto loro, noi possiamo solo supportare, non sostituirci a loro) e sicuramente meno faticosi che se conquistati con le sole umane forze.

E invece vi voglio svelare un segreto.

Non abbiamo superpoteri, siamo solo genitori, ma con il potere umano più forte del mondo: l’amore per i nostri figli.

Sono certa della buonafede di molti e che esprimere taluni complimenti sia un modo per farci sentire apprezzati e importanti, ma noi non vogliamo nulla di tutto questo.

Noi vogliamo un mondo migliore per i nostri figli. Un mondo in cui non ci sia bisogno di una parola come “inclusività” affinché possano vivere vite degne al pari dei loro coetanei e in cui vengano apprezzati per loro stessi e non per ciò che una società buonista li vorrebbe: buoni e bravi, angeli mandati in terra per redimere un mondo brutto e cattivo. Se verranno trattati da persone e non da diagnosi, quando arriverà il momento potremo morire sereni, fino ad allora il loro futuro sarà sempre la maggiore fonte di dolore e preoccupazione.

Cosa vorrei trovare per la mia famiglia sotto l’albero di Natale?

Una lattina di serenità, un pacchetto di riposo, un barattolo di comprensione e una spolverata di felicità.

Per me, invece, un cappuccino con le amiche, non importa se in tazza o in bicchiere di vetro, se caldo o tiepido, con o senza cacao. Un semplice cappuccino, beatamente seduta fronte porta, senza dover costantemente monitorare tutte le possibili vie di fuga di una Principessa stratega dell’evasione silenziosa. Un cappuccino e due bustine di zucchero, perché la vita sa già essere sufficientemente amara da sé.

Photo by David Bares on Pexels.com
La mamma "autistica"

Indolenza

Dopo due mesi di vita in cantiere, ne ho francamente i cabasisi pieni.

Ora dovrei riporre i miei vestiti nell’armadio e le suppellettili in soggiorno, ordinare i libri per autore e titolo (ma solo se non fanno parte di una serie, ovviamente!) e invece sono seduta a chattare con un’amica e sto per mandare la dieta a puttane amoreggiando con un vasetto di Nutella.
Il senso di colpa e l’ansia le faranno da companatico e quindi ingrasserò a dismisura.

Non ho voglia di fare niente, nemmeno di leggere e ciò è davvero gravissimo, praticamente lo tsunami del fancazzismo che spalanca le porte alle goccine buone.

In realtà c’è qualcosa che desidero tanto fare: vorrei andare al mare con tutta la famiglia, passeggiare sulla spiaggia e mangiare una spaghettata con le vongole.

Sogni proibiti di un pomeriggio di inizio primavera nell’anno 1 d.C. (dopo Covid), mentre galleggio in un mare di indolenza.

Immagine di repertorio scattata a Pirano il 06/01/2020, praticamente una vita fa

Ariel

9 anni

Piove, fuori e dentro.

Oggi Ariel compie 9 anni.

I temuti 9 anni del “se non parlerà entro i 9 anni, non parlerà più”.

I fatidici 9 anni che fanno da spartiacque tra la bambina e la ragazzina.

I 9 anni che stanno all’infanzia come i 45 alla mezza età: giri di boa che chiudono un ciclo e ne aprono un altro.

A me i numeri dispari piacciono da sempre, ho una fissa per i numeri primi escluso l’inutile 2 che viaggia sempre in coppia perfetta.

Ariel 9 anni, io 45. Ho vissuto 5 volte la sua vita e ogni giorno imparo qualcosa da lei. È una maestra esigente, ma paziente con quest’alunna somara che recidiva sempre negli stessi errori.

Piove fuori, ma non dentro.

Ariel cresce e ogni giorno fa un importante passo da formica verso un futuro pieno di incognite, ma con una grande certezza: l’amore della sua famiglia che la avvolge e la protegge e che scalda il mio cuore di cristallo.

Piove fuori, ma dentro c’è il sole per brindare alla mia Principessa del Vento.

Tanti auguri, Princess Ariel!

La famiglia "autistica" · La mamma "autistica"

Riflessi e riflessioni

Da due anni è arrivata una nuova famiglia: mamma, papà, due bambini, il maschio appena un po’ più grande della femmina.

Io li studio da un punto di osservazione privilegiato, non si sono mai accorti di me, esattamente come il signore anziano che li precedeva: lo osservavo farsi la barba, mettersi la colonia sul viso, Acqua di Parma, la stessa da sempre.

Lo so cosa state pensando, ma vi sbagliate! Non sono uno stalker, è che la vita in un paese dimenticato da Dio può essere davvero noiosa e osservare le persone mi aiuta a trascorrere il tempo.

I nuovi arrivati sono davvero rumorosi, soprattutto al mattino. La madre urla scandendo i ritmi nell’indifferenza generale degli altri tre, anzi, quattro, perché un anno fa è arrivato anche un botolo peloso che fin da subito si è adeguato ai ritmi folli di questa famiglia fuori dagli schemi.

Non sto esagerando: c’è qualcosa di strano in questo gruppetto e vi assicuro che io di cose strane ne ho viste davvero molte. Quando le persone credono di non essere osservate, mostrano la loro vera natura e cadono le maschere.

Il padre è spesso assente, lavora molto, e gli altri tre, anzi quattro, sono spesso da soli. La dinamica famigliare è piuttosto chiara: tutto ruota attorno alla bambina. Una creatura bellissima, dallo sguardo furbo: gli occhi cerulei saettano velocemente a destra e a sinistra, mentre le sue mani si muovono veloci, farfalle senza riposo. Non parla, emette suoni strani, solo il cagnolino sembra in grado di capirla in alcuni momenti. Quando è triste le si avvicina e le mordicchia le mani che poi lei si tormenterà più e più volte, fino a farle sanguinare nei momenti di rabbia.

Il bambino più grande sorride tanto, ma a volte scoppia in urla rabbiose, altre volte si siede a testa bassa, canticchia una canzone per distrarsi, si lava i denti continuando a chiacchierare. Sembra sempre che debba coprire il mutismo della sorella.

Il padre entra nella stanza, si fa la barba, a volte legge le notizie sullo smartphone e impreca tra i denti. Ora più che mai il suo lavoro lo costringe fuori casa e si rende conto che la situazione peggiorerà ancora per qualche tempo e spera di non contagiare la famiglia. Cosa succederebbe se lui o la moglie si ammalassero? Chi si prenderebbe cura di quella figlia così chiusa al mondo e incapace di badare a se stessa?

La madre è quella che vedo più spesso: chiude la porta a chiave, apre l’acqua della doccia e, seduta sul water, la fa scorrere finché la stanza si veste di uno spesso strato di vapore.

Mette al sicuro la famiglia dal dolore che le attanaglia il cuore e l’anima,  la protegge dalla paura che ogni giorno le riempie lo stomaco. Ora che il mondo della famiglia è confinato al giardino e le routine sono cadute come foglie al primo vento d’autunno, sta ripianificando la vita di tutti loro, ma si sente inadeguata e urla muta la sua fatica, mentre le lacrime le riempiono gli occhi.

Poco dopo sente bussare alla porta. “Chi è?”

“Io.” Il bambino non dice mai il suo nome, perché sa di essere l’unico a poterle rispondere. La sorella direbbe al massimo “EH!”, fiduciosa nel riconoscimento della sua voce arrugginita.

“Cosa c’è? Mi sto facendo la doccia…”

“Tua figlia sta caramellando tutta la camera.”

“Caz… Arrivo…”, mentre inizia a spogliarsi rapidamente.

“Sappi che ti ho sentita: hai detto una parolaccia, mi devi un euro.”

“Non l’ho detta tutta!”

“Ma quasi e comunque l’hai pensata tutta. Non fare la furba: mi devi un euro!”

Intanto infila l’accappatoio, chiude l’acqua ed esce in fretta e furia, preceduta da un’ondata di calda umidità, la bugia stampata in viso e l’indumento da bagno che pende a sinistra.

Sento un sussulto, una specie di rantolo e poco dopo è di nuovo di fronte a me. Sta borbottando quella parola, più e più volte. All’improvviso fa un rapido movimento della mano da destra verso sinistra, poi, di nuovo, da sinistra verso destra e…

Mi guarda dritto.

La guardo dritta.

Fa una smorfia.

È fin troppo evidente che quello che vede non le piace, ma non è colpa mia: io rifletto solo la sua immagine, ciò che lei percepisce, invece, è tracciato dentro se stessa.

In fondo sono uno specchio, non distorco la verità, la metto a nudo rendendola libera di essere plasmata dalle emozioni, dalle gioie e dai dolori.

Mi si avvicina ancora un po’ e nell’angolo in alto a destra dove c’è ancora un po’ di vapore scrive: ECCHECAZZO!

Mi fa una linguaccia, si riveste rapidamente ed esce rapida, la testa arruffata dall’umidità e da mille pensieri.

So che tornerà presto, deve cancellare la parolaccia, non può lasciarla lì, e io sarò qua per lei come sempre: a volte amico, a volte nemico, ma sempre pronto a riflettere i suoi umori e raccogliere le sue riflessioni.

ECCHECAZZO

 

La famiglia "autistica"

Famiglia

Non giocano insieme. Non condividono pressoché nulla. Universi paralleli che hanno in comune la mamma ed il papà.

A chi non li conosce, a chi non ci conosce possiamo sembrare un’accozzaglia di persone con caratteristiche strane, ma non è così: siamo una famiglia e ognuno di noi si prende cura degli altri.

Se Davide piange, Ariel si avvicina lentamente, in silenzio, rispettosa del suo dolore e, osservandolo con la testa piegata, ne cerca lo sguardo. Gli accarezza i capelli scuri e, quando lui smette di piangere, corre via urlando, tornando ad essere la nostra piccola scimmia urlatrice.

Quando Luca lavora, i bambini dormono nel lettone con me. Davide parla spesso nel sonno. Stanotte ha intimato più volte “Sputa!” ad una sorella fatta della stessa materia dei sogni e che si mette in bocca i tappi delle bottiglie. Una rompiscatole, una creatura che deve essere sempre seguita, controllata protetta ed amata, tanto da svegli quanto tra le braccia di Morfeo.

Non giocano insieme. Non condividono pressoché nulla. Universi paralleli che fanno parte della stessa famiglia, ma che, in un modo tutto loro, si amano e si proteggono e nessuno ha il diritto di giudicare il nostro piccolo mondo fatto di stranezze, amore e fragilità.

Il mondo intorno a noi · La mamma "autistica"

La lettera

Ho trovato una lettera.

Passeggiavo per Trieste e a terra c’era questo foglio piegato in quattro parti.

Mi ha colpita la calligrafia adolescenziale.

L’ho raccolta, mi sono guardata in giro, ma non ho visto ragazzi nei paraggi: avrei voluto restituirla, ma intorno a me c’erano solo famiglie o persone anziane.

L’incipit era “Ciao Francesco (Tato)”. Sì, decisamente una lettera da sedicenne innamorata.

La tentazione di leggerla è stata davvero forte, ma l’ho lasciata sul cornicione del ponte, sperando che Tato, tornando sui suoi passi, la potesse ritrovare.

Le lettere sono parole del cuore, vanno tratte con cura, come murrine, rispettate come i segreti confidati da un amico.

Ho pensato a lungo a Tato e, suppongo, a Tata. Chissà quali sono i loro sogni, le loro speranze, i loro desideri. Fino a qualche giorno fa gli adolescenti di oggi mi sembravano strane creature perse nei loro mondi digitali, fragili da soli, arroganti in gruppo. Molto lontani da me, dalla mia vita.

Quella lettera, però, ha cambiato la mia prospettiva: nonostante siano passati quasi trent’anni, un foglio, strappato precipitosamente dal quadernone di italiano, raccoglie i sentimenti di una ragazzina innamorata. Ora come allora.
E quindi, forse, i suoi sogni non sono così diversi da quelli che facevo ad occhi aperti una vita fa: diplomarmi, lavorare, sposare il mio grande amore, famiglia, casa, viaggi…

Oggi i miei sogni sono completamente diversi e non dipende da quei tre decenni che separano Katy la secchiona da Katjuscia la mamma, dipendono dalla vita.

Ora sogno una scuola inclusiva, un mondo del lavoro che possa valorizzare le persone autistiche, un luogo accogliente e sicuro in cui lei possa sentirsi amata e protetta quando non ci sarò più.

Sogno di sentirla parlare, anche se la fiamma della speranza diviene sempre più flebile.

Ariel cresce, giorno dopo giorno, due passetti avanti, un piccolo passo indietro, ma sempre determinata, a volte ostinata.

Sicuramente da ragazzina non sognavo una plastificatrice A3 o un tablet vocale, la licenza di Symwriter e di frequentare un corso per professionisti per la gestione dei comportamenti problema.

La mia me sedicenne non avrebbe mai esultato trovando la Blue Diary nella cassetta delle lettere.

Sicuramente non avrei mai creduto di vedere gli occhi di mio padre riempirsi di lacrime davanti agli inutili sforzi della nipote di parlare.

A sedici anni tutto è possibile. A sedici anni ti senti invincibile e pensi che a te non succederà mai nulla di brutto. Pensi al futuro, ma dopodomani è troppo lontano e ieri è passato veloce come il vento tra le canne di bambù nello stagno dietro casa.

A quarantaquattro anni scoppi di gioia quando vedi tua figlia entrare a scuola sorridendo e ti commuovi ricevendo un messaggio della Maestra: ” Il sorriso di Ariel stamattina è la cosa più bella che ho visto nel 2020″ e ti senti grata per il momento di grazia che sta attraversando.

A quarantaquattro anni ti auguri che tuo figlio da grande abbia la forza di staccarsi dal suo ruolo di protettore della sorella per vivere la propria vita.

A quarantaquattro anni vorresti avere la pelle della sedicenne, il culo della ventenne, il fascino della trentenne, ma soprattutto il cuore della quarantenne prima che venisse stritolato dalla diagnosi.

Quello che salvo dei miei 44 anni (e mo’ lo metto in cifra perché mi sono rotta di digitarlo) è l’ironia e la voglia di sdrammatizzare: ecco quella non me la toglierà mai nessuno.

E oggi il bicchiere è mezzo pieno di tenerezza per una sedicenne innamorata e per una signora con la crisi di mezza età.

Cheers!