"L'amore non conosce barriere. Salta ostacoli, oltrepassa recinzioni, attraversa pareti per arrivare alla sua destinazione, pieno di speranza." – Maya Angelou
Odio i bilanci di fine anno, i miei sono quasi sempre in rosso, quasi quanto il mio conto corrente.
Ancora più disagio mi creano i buoni propositi che non riesco mai a mantenere.
E allora cosa resterà di questo 2019? Come cantava Raf:
“Anni come giorni son volati via,
Brevi fotogrammi o treni in galleria”.
Già i treni, quelli presi, ma soprattutto quelli persi, che lasciano un sapore amaro in bocca come di caffè salato.
Io, però, voglio pensare positivo, devo farlo per canalizzare le energie e quindi ricorderò solo le cose belle che profumano di buono, che riempiono gli occhi di colori vivaci e il cuore di amore:
i viaggi per Grottammare, con le borse piene di cibo senza glutine e gli aperitivi al bar: tre friulane nelle Marche e tanti amici da scoprire in tre fine settimana di studio;
Ariel che si spinge sull’altalena, ridendo felice, i sandali lanciati al volo chissà dove;
Baloo che mi sveglia, mi accompagna sul divano e che, dopo aver appoggiato il muso sulla mia spalla, sospira e si addormenta soddisfatto;
Davide che inizia a sorridere di nuovo, dopo aver cambiato classe;
Luca che sta meglio e che, nonostante il lavoro, scherza e gioca come tanti anni fa, prima della diagnosi, prima del nero;
Le risate di tre mamme e tre bambini in un museo milanese, perché non sta scritto da nessuna parte che per imparare ci si debba annoiare;
Le albe rosa, sorseggiando il caffè in terrazza, e i tramonti scarlatti, mentre il sole si riposa dietro al mare;
Il sudore soddisfatto della vetta raggiunta (sia metaforicamente che letteralmente);
La famiglia riunita per il Natale, mentre il fuoco crepita nel caminetto;
Ariel che nasconde il piffero di Davide, candidandosi al Premio Nobel per la Pace;
Un caffè in Piazza Plebiscito con quattro Befane e due Bambinielli;
La prima stella della sera che abbraccia la luna.
Confesso, gli auguri che vi avevo fatto lo scorso Primo Gennaio erano quasi perfetti, per la mia me stessa di un anno fa. Nell’arco degli ultimi dodici mesi sono un po’ cambiata e ho deciso di modificarli un po’. Vi auguro quindi:
Un mare calmo di serenità: troppo spesso sottovalutata, per me la serenità è infinitamente più preziosa della gioia, più riposante e agognata;
Amore quanto basta per sentirvi importanti per qualcuno, supportati nelle vostre decisioni e apprezzati, nonostante i vostri errori;
Un abbonamento in palestra da poter dimenticare in qualche cassetto;
Un baule in cui riporre i ricordi dei viaggi nei villaggi più impervi, nelle grandi metropoli o in paesini sperduti, purché al ritorno a casa vi siate sentiti più Umani;
Del tempo tutto per voi: poco importa che lo passiate ad arrampicarvi su aspre vette, seduti a ricamare, a farvi i ricci dalla parrucchiera o distesi a letto, cercando di contare le particelle di polvere che filtrano dalla finestra, purché vi rammenti che siete Persone e non solo ruoli;
Un amico che riesca a vedere la pioggia dietro al sole e che vi abbracci in silenzio, perché molto spesso le parole fanno solo rumore;
Coerenza, condivisione, tenacia, saggezza e passione, ma anche forza e coraggio: la vita sa essere tremendamente stronza e a volte bisogna prenderla a sberle in faccia per farle capire che noi non molliamo mai;
Tanta salute: capiamo quanto è preziosa solo quando viene meno. Quando ero piccola e dicevano “finché c’è salute, c’è speranza”, alzavo gli occhi al cielo. Oggi mi rendo conto che la salute non è retorica, ma un potente motore che determina molte delle nostre azioni;
Ed infine, vi auguro, di non perdere mai la speranza. Preceduta da tutti i mali del mondo, dal vaso di Pandora uscì per ultima la speranza: senza di essa le nostre vite sarebbero ben misere esistenze. Per quanto mi riguarda la speranza è la fiamma che mi dà la forza ed il coraggio di scendere dal letto e di affrontare un altro giorno lungo un anno, eterno come una vita.
Stremata dalla stanchezza, guardo Davide ciondolare per casa, sento Ariel farsi l’ennesima doccia. So che sta allagando il bagno e che quando avrà finito, non avrò abbastanza energie per raccogliere l’acqua, ma è il male minore.
La vita con una persona autistica grave è faticosa, mentalmente e fisicamente, richiede accudimento costante. Ogni piccola faccenda domestica è un’impresa immane.
Abbiamo deciso di festeggiare il Natale a casa nostra, affinché Ariel potesse essere più serena e avesse i suoi spazi. Mentre apparecchiavo la tavola, è salita nella mia automobile e con pazienza certosina ha tolto tutta la guarnizione del tettuccio.
Non la si può mai perdere di vista, mai: stamattina, mentre spazzavo la taverna, ha trovato il tubo galleggiante per la piscina e l’ho sorpresa mentre lo stava masticando; ieri sera, mentre preparavo la cena, ha rovesciato un bicchiere d’acqua sul tablet ricevuto a Natale e che in questo momento è sotto riso, sperando in un qualche miracolo del santo protettore dell’elettronica.
Chi vive con un disabile grave non fa “solo” qualcosa: non ha “solo apparecchiato la tavola” o “solo preparato il pranzo” o “solo caricato la lavastoviglie”, fa quella cosa e contemporaneamente tiene d’occhio la creatura, l’aiuta nelle attività quotidiane, cerca di evitare che possa mettersi in situazioni potenzialmente pericolose per se stessa e per gli altri.
Ariel ha otto anni e mezzo, un pessimo carattere, una notevole ipersensorialità e forza al di fuori del comune. Come se non bastasse, sa istintivamente come posizionarsi per rendere più difficile il contenimento e la messa in sicurezza. Ci sono giornate in cui le spalle e le braccia mi fanno malissimo, il collo è un groviglio di nervi e muscoli tesi.
Ve lo chiedo per favore: non minimizzate quello che facciamo, ad alcuni può sembrare poco, ma a noi costa molta fatica.
Non mi credete? Passate una settimana con i nostri figli, fratelli, genitori disabili e poi ne riparleremo.
Io sono un’impiegata, una casalinga e una caregiver. E tu?
P.P.S. Ovviamente amo mia figlia, non potrei vivere senza di lei, “solo” che sarebbe bello annoiarsi ogni tanto. 😅
Davide è un pezzo, Ariel l’altro: un puzzle a forma di cuore con due tessere che si fondono perfettamente.
Due pezzi delle medesime dimensioni, ma diversi nelle forme e nei colori.
L’amore per Davide è verde: rilassante, infonde buonumore e serenità; è spontaneo, semplice, profondo, avvolgente. È un amore concavo, accogliente.
L’amore per Ariel è rosso: assoluto e vitale, mi costringe in uno stato di perenne allerta, un ottovolante di emozioni e preoccupazioni; un amore convesso, sporgente ed invadente.
Quando stringo ed abbraccio Ariel, sento salire calde ondate cremisi, vermiglie e scarlatte. Quando la bacio sul naso, so che lo potrò fare fino al mio ultimo respiro, perché lei starà sempre con me: è un amore aggressivo e denso, ma, pieno ed eterno, che mi fa accelerare i battiti del cuore, prepotente e senza tempo.
Quando stringo e abbraccio Davide, invece, mi godo l’intensità del momento, la dolcezza del contatto, un caldo verde muschio che arricchisce il mio cuore e la mia anima. L’amore per Davide è forte e maturo, consapevole, ma, quando penso al futuro, alla sua adolescenza, alla sua vita lontana da noi, sfuma in un malinconico e trasparente verde acqua.
Io li amo. Verde o rosso, poco importa. Li amo tantissimo, così intensamente che, quando li guardo, mi fa male il cuore.
Scendi dall’altalena, frenando con i piedi, la ghiaia schizza un po’ ovunque.
Ti chiedo se vuoi una Coca Cola, “Hì!”, con movimento rapido della testolina, gli occhiali da sole che si spostano leggermente, nonostante l’elastico.
Quanta fatica, quante ore di logopedia per produrre quel “Hì!
Poco fa, vicino a noi, si dondolavano tre fratellini: mi stupisce sempre sentire i bambini piccoli parlare. Mi dimentico che quel processo complicato che tu non riesci a costruire, ossia parlare, fa parte della natura dell’uomo e che, purtroppo, sei tu l’eccezione.
Ci diamo la mano, camminiamo fianco a fianco e andiamo a prendere la tua bibita al bar del parco. Seduta sulle panche in legno, guardo i pioppi, le foglie mosse dal vento in varie tonalità di verde scuro e argento, il cielo azzurro, non cobalto, pieno di cirri: l’autunno è alle porte e i determinati colori estivi iniziano a stemperare in quelli autunnali.
Mi sento malinconica, penso alla clessidra della vita: a 44 anni quasi sicuramente la mia è già stata girata e devo sbrigarmi a organizzare il tuo futuro, affinché Davide non si senta mai costretto a rinunciare alla sua vita per te.
Oggi, se tu fossi stata diversa, ti avrei portata ad Aquileia a vedere la Basilica con i suoi affreschi e ti avrei raccontato dei Romani e di Attila, della battaglia tra il Patriarcato di Aquileia e quello di Udine che nel medioevo aveva portato ad una rivalità atavica tra Clauiano e Trivignano con tanto di furto del confalone di Clauiano; oppure saremmo andate a Miramare dove ti avrei parlato di una principessa molto triste, impazzita di dolore dopo la morte del suo amato; avremmo potuto fare shopping, acquistando quaderni glitterati e zainetti con gli strass.
A te, però, non interessa nulla di tutto questo.
Tu sei Ariel, la mia Ariel, la mia Principessa senza parole, ma con tanto amore e chissenefrega dei Romani, delle principesse e degli acquisti compulsivi.
Così, eccoci qua, a bere la Coca Cola sotto ai pioppi e ad un cielo azzurro come i tuoi occhi.
Il cielo è chiaro sopra di noi quando il sole sorge a mezzanotte. Mi stringo nel piumino e mi spingo fin dove la terra finisce. O inizia?
Scendo lentamente i gradini e trattengo il respiro alla vista delle colonne che si riflettono nell’acqua.
Passeggio nella Piazza dal nome spaventoso, piena di saltimbanchi e mangiatori di fuoco. Mio padre mi stringe forte la mano, perché ha paura di perdermi. Si avvicina un artista di strada e lentamente gli mette sulle spalle un serpente lungo e nero. Urlo di paura.
Con la testa piegata all’indietro, guardo la grande antenna brillare di luce dorata.
Sento il grande Benjamin suonare, mentre entro nella Cattedrale in cui riposano il padre dell’evoluzione e le tre sorelle scrittrici.
Mi avvicino lentamente all’isola che guarda alla Libertà, ma che la filtrava fino al 1954.
Vedo bambini giocare in un’opera d’arte di casette di zenzero e acquari musivi.
Assaporo una Sacher dall’alto della Piccola Gloria, mentre la città esplode in un tripudio arancione.
Salgo le scale strette con il cuore in gola: penso a quella bambina come me, tanto più coraggiosa di me. Il suo diario rosso è dentro la teca e, mentre lo guardo, le lacrime mi riempiono la gola.
Piove. La gita al parco sul lago è rinviata. Sono stesa nel letto posteriore, sento il ticchettio delle lacrime celesti sulla lamiera, mentre dalla cucina arriva il profumo del sugo al pomodoro e i vetri si appannano. Ci scrivo “ciao”, anche se so che la mamma mi sgriderà.
Seduta nel teatro più famoso del mondo, cerco di digerire la delusione: speravo di vedere un balletto ed invece assisto ad un’opera in lingua madre. L’unica parola che capisco è “”spasiba”.
Sono sveglia fin dalle prime ore del giorno. Esco con Luca per vedere l’alba colorare le tre vette che si riflettono nel lago.
Il tram è arrivato alla fine della corsa. Scendiamo tutti e aiutiamo l’autista a girarlo, affinché possa affrontare nuovamente la salita, mentre le brume del mattino si alzano dalla baia.
Londra
Parigi
New York
Adoro viaggiare. Quando scopro posti nuovi, entro in contatto con nuove culture, mi sento viva.
L’autismo mi ha tolto anche questo.1
La rigidità alimentare, la ristrettezza di interessi, il bisogno di prevedibilità, l’intolleranza ai tempi di attesa, il bisogno di correre, le stereotipie verbali e l’estrema sensorialità rendono Ariel incompatibile con i viaggi di lungo trasferimento in gruppo o itineranti.
Mio dovere di madre è rispettare e proteggere le sue caratteristiche personali ed il suo benessere personale, anche a costo di sacrificare i miei sogni.
Potrei viaggiare sola o con Davide, alternando l’accudimento di Ariel con Luca, ma noi siamo una famiglia: per me le vacanze si fanno insieme. E comunque quando non sono con lei, sono sempre in pensiero: la mia piccola ruffiana incantatrice mi manca sempre da impazzire. Quindi, vacanza in montagna per accontentare i due uomini di casa e mezze giornate da pendolari del mare. Il mio unico, vero giorno di vacanza sarà giovedì prossimo quando andrò a Milano con Davide ed alcuni amici per vedere una mostra.
Le giornate a casa sono un susseguirsi ininterrotto di disastri combinati da Ariel: mentre cerco di sistemare il primo, lei ne sta prontamente organizzando un altro.
Allaga il bagno e mentre asciugo, lei butta i dvd in giro; le faccio raccogliere i dvd.
Mentre cerco di caricare la lavatrice, prende la Coca Cola dal frigo e la rovescia; la faccio pulire.
Due secondi dopo caramella tutto il soggiorno con lo zucchero che fa presa istantanea sul pavimento ancora umido. Pulisce di nuovo.
Scarico la lavastoviglie e sento le cascate provenire dal bagno: quando arrivo ci sono 2 cm di acqua che mano Noè quando scese dall’arca. Asciugo tutto con il suo aiuto.
E avanti così in un circolo ininterrotto di guai che attiva per attirare l’attenzione. Ha pochi interessi e quei pochi diventano ossessioni in pochissimo tempo. Sa fare i puzzle e gli stickers in autonomia e dondolarsi con l’altalena, ma preferisce avere qualcuno accanto.
Stanotte si è svegliata alle 3.00 e si è riaddormentata alle 5.00.
Il suo accudimento richiede una presenza costante: 24 ore di assistenza pura.
Sono a casa dall’ufficio per tutto il mese di agosto, ma vi prego: non chiamate “ferie” questi giorni di assenza dal lavoro!
L’autismo (come tutte le disabilità o condizioni) non va in vacanza. Manco i genitori, però.
Roma
Riva del Garda
Disneyland Paris
1 Ad onor del vero, lui, l’autismo ha solo una parte della responsabilità: altrettanto colpevoli sono le comorbidità (ritardo cognitivo e/o altro disturbi che si potrebbero associare ad esso quali ADHD, disturbo alimentare, disturbo ossessivo compulsivo, disturbo oppositivo provocatorio, Sindrome di Tourette, disturbo del linguaggio…), ma essendo Ariel ancora piccolina, per ora abbiamo solo la diagnosi di autismo, anche se so che ha almeno altre 4 comorbidità, in forma più o meno lieve.
Sento lo scroscio della cascata. È vicina, l’acqua rumoreggia e gorgoglia nascosta tra gli alberi.
Nel bosco c’è profumo di muschio e felce, il sentiero è in ombra. Alzo gli occhi: il cielo è terso, un telo cobalto privo di imperfezioni, mentre il sole filtra timidamente tra gli alberi.
Il sentiero è soffice, coperto da milioni di aghi bruniti. Amo camminare su tappeti morbidi del bosco che accompagnano il passo e riducono la fatica.
La risata cristallina di Ariel risuona in tutto il pineto. Proviene dalla medesima direzione da cui arriva il borbottio della fontana.
Man mano che mi avvicino, l’aria si fa più fresca e umida, milioni di gocce nebulizzate mi sfiorano il viso.
Il tocco fresco di una manina bagnata sulla spalla accaldata mi fa trasalire.
Spalanco gli occhi di colpo.
Ariel è in piedi vicino a me. Nuda.
Altro che Cascata delle Marmore! La Princess ha ricreato le Niagara Falls in bagno: doccia schiuma ovunque e acqua che scroscia impetuosa dal lavandino.
E oggi il bicchiere… pardon, il secchio è mezzo pieno di acqua tirata su con il mocio e di pisolini pomeridiani schiacciati in una torrida estate che sembra non finire mai.
Ci penso e ci ripenso. Cerco di richiamare immagini alla mia mente, ma niente.
Il vuoto più totale.
Nella mia mente c’è stato un black out lungo diciotto mesi.
Un anno e mezzo di ricordi annullato, un anno e mezzo di vita cancellato.
Non ricordo Ariel, non ricordo Davide.
Non so come stavo: non so se ero triste, rabbiosa, apatica.
Non so cosa facevo durante il giorno, non so dove trovavo la forza per scendere dal letto e affrontare le mille attività del quotidiano. Io non so nulla tranne che, nonostante tutto, la mia vita è andata comunque avanti, sebbene non me la ricordi.
La mia unica certezza è che la deflagrazione della diagnosi di Ariel ha cambiato la mia vita per sempre. In pochi mesi i capelli sono diventati completamente grigi.
La mia vita ha uno spartiacque tagliente come un bisturi, duro come il diamante, profondo come la Fossa delle Marianne.
So di avere acquistato molti libri sull’autismo in quei giorni e di averli dolorosamente letti tutti. Lo so perché le pagine sono tutte ondulate: le lacrime versate le hanno irrimediabilmente rovinate.
Un po’ alla volta sono riemersa dal mio dolore, ho iniziato a rimboccarmi le maniche, a cercare le terapie migliori per Ariel.
Quando era piccola speravo nel miracolo del linguaggio. Ora sogno la sua voce: una Ariel vocale mi viene spesso a trovare in sogno, ha una voce gialla, arrugginita, ma a suo modo perfetta.
Sono consapevole che lei non parlerà mai e devo sviluppare la sua comunicazione: devo darle la possibilità di esprimere i suoi bisogni, i suoi sogni. Una bambina di 8 anni ha ormai un vissuto importante alle spalle e non voglio credere, non posso accettare che tutto il suo mondo sia rinchiuso in un quadernetto ad anelli con venti immagini. I suoi silenzi inducono a sottovalutare la sua comprensione e la sua intelligenza e questo dovrebbe mortificare noi, non lei!
Crescendo, le preoccupazioni cambieranno con lei: noi genitori dovremo affrontare la scelta della scuola secondaria, sperare in un fantomatico, ma assai improbabile inserimento nel mondo del lavoro e costruire qualcosa di organizzato e funzionale per quando non ci saremo più.
La vita di un genitore “autistico” è scandita da diverse fasi: il buio della diagnosi, la forza della consapevolezza dell’infanzia quanto tutto sembra possibile trovando i giusti terapisti, le preoccupazioni dell’adolescenza, la serenità della giovinezza dell’adulto quando il percorso è consolidato ed infine i dubbi paralizzanti del “dopo di noi”. Chi si occuperà di lei? È giusto che lo faccia Davide? Ci sono centri adatti al suo accoglimento? Le notizie di cronaca riportano spesso abusi sui nostri ragazzi ed ogni volta è una ferita al cuore dell’intera comunità autistica.
I genitori delle persone autistiche sono stanchi, soffrono spesso di depressione o solitudine e i loro pensieri sono costantemente incentrati sulla loro creatura, mentre gli altri figli crescono troppo in fretta.
Le famiglie hanno bisogno di sostegno e supporto per TUTTA la vita di una persona autistica.
Le iniziative per aiutare queste persone devono coinvolgere i portatori di interesse ed essere realmente inclusive.
Come aiutare queste famiglie?
Sono solo una mamma, ma nell’arco degli anni mi sono fatta alcune idee:
Per prima cosa è necessario fare una mappatura del territorio, capire quante persone autistiche sono presenti nel Comune di residenza e le loro caratteristiche anagrafiche, nonché il loro livello di gravità. Solo conoscendo le persone autistiche e le loro famiglie si possono proporre progetti adeguati alle loro esigenze che potrebbero essere completamente diverse da quanto si potrebbe immaginare in via ipotetica;
Sarebbe utile preparare uno starter-kit per i genitori delle famiglie neo-diagnosticate, un elenco di tutti i loro diritti e doveri e delle procedure da attivare a tutela dei figli. Proprio in questi giorni ho letto di una mamma che pensava che la visita con il neuropsichiatra dell’azienda sanitaria le desse automaticamente accesso alle agevolazioni della legge 104: non sapeva di dover fare domanda all’INPS e di doversi presentare in Commissione di accertamento. Dopo la diagnosi, i genitori hanno un dolore enorme da gestire e dovrebbe essere compito delle istituzioni sgravarli dalla fatica di dover reperire le informazioni su internet o nei gruppi Facebook, dove le informazioni trasmesse sono spesso errate;
Coinvolgere le famiglie analizzando insieme a loro di cosa hanno bisogno. Alcuni potrebbero chiedere attività ludiche ed inclusive per i figli, ma altri potrebbero chiedere due ore di libertà in cui poter essere solo un uomo o una donna. La vita con un disabile grave non lascia spazio ad altro, spesso andare allo stadio o dalla parrucchiera è un lusso che i genitori non si possono concedere;
Aprire degli sportelli di supporto psicologico per i genitori e i fratelli: i sibling sono bambini e ragazzi dal cuore enorme, molto empatici, ma anche fragili;
Formare personale adeguato e gratificato dal lavorare con le persone autistiche: sono creature meravigliose, complicate e semplici allo stesso tempo, potrebbero arricchire la società se debitamente formate. Troppo spesso si sente parlare di abusi sui disabili: bisogna avere determinate caratteristiche personali e una grande preparazione professionale per far fronte ad alcune situazioni. Ebbene, secondo me sarebbe utile sottoporre i candidati a seri test psicoattitudinali prima di farli accedere ai corsi universitari di riferimento o prima dell’assunzione nei centri diurni, residenziali o riabilitativi;
Costruire delle strutture per il “dopo di noi”: 1 nuovo nato su 68 è autistico. È compito delle istituzioni creare un futuro accogliente ed inclusivo per queste persone.
Un punto mi sta particolarmente cuore ed è il rispetto per le famiglie con persone autistiche. È di questi giorni la notizia di una famiglia che “ha deciso di abbandonare il figlio autistico di 11 anni”. Ho sentito e letto commenti di ogni genere, ma nessuno ha il diritto di giudicare il dolore di una famiglia spezzata. Ognuno affronta le difficoltà e il dolore per il proprio vissuto e per la propria forza morale, nonché per le risorse messe a disposizione dai singoli membri di una famiglia e dalla società. Un abbraccio consola e sostiene, un dito puntato contro distrugge e annichilisce. Una famiglia che “abbandona” un figlio di 11 anni è un fallimento per tutti noi. Per me, per te, per noi. Tutti abbiamo fallito.
Dal canto mio ora sono più consapevole, accetto la condizione di mia figlia, ma continuo a sognare Ariel che parla: so che al saluto finale sarà la sua voce gialla che sentirò come ultima cosa.
come ti chiami? E il tuo cane? Posso giocare con voi?
Chi sono? Hai ragione, scusa ma i convenevoli non sono il mio forte.
Mi presento, mi chiamo Ariel. Ariel con la A… Non capisco questa precisazione, ma la mamma dice sempre “Katjuscia, con la kappa.”
Quindi io sono Ariel. Ariel con la A.
Ho quasi 8 anni e frequento la seconda A… Forse la A serve a specificare la sezione, ma non mi pare che la mamma lavori in un ufficio kappa…
Scusa, i miei pensieri spesso volano veloci e non riesco a sceglierne uno: sono tutti importanti, tutti colorati e io non me ne voglio perdere uno.
Dicevo… Ho i denti sbottonati, i capelli biondo scuro e gli occhi azzurri che a volte sembrano grigi. Mi stanno spuntando un sacco di lentiggini sul naso.
Amo Topolino (non ditelo a Minni, ma quando sarò grande lui sposerà me e non lei), le Winx, Peter Pan e il Libro della Giungla. Quando ero piccola sono stata a Eurodisney e ho incontrato il mio grande amore: ero così felice che mi sono alzata in piedi a saltare per la gioia; poi ho visto la mamma discutere con una signora che ci ha portati in un posto dove c’era un cartello con un signore con le rotelle. Mentre tutti gli altri bambini si alzavano, urlavano e ridevano, io dovevo stare ferma a guardare lo spettacolo e la mia mamma continuava a piangere: la signora non smetteva di guardarci. Non capisco perché, ma sembrava arrabbiata con noi…
La mia materia preferita è tecnologie informatiche, in italiano faccio un po’ fatica.
Mi piace il mare, meno la montagna.
Quando vado al parco giochi, mi fiondo sull’altalena. Quando ero piccola pensavo fosse tutta mia, invece adesso ho capito che devo dividerla con gli altri bambini e aspettare il mio turno.
Mangio solo la pizza con i wurstel e penso che la Coca sia 10.000 volte meglio della Pepsi.
Mi piace molto cantare anche se non riesco a capire se sono intonata. Penso di sì, perché quando ero all’asilo, a casa facevo le prove per cantare “Sofia” alla recita di fine anno e la mamma si commuoveva sempre: devo essere davvero brava!
Ho pochi amici, ma buoni di cui il migliore è Baloo, il mio cagnolino.
Le luci e i rumori forti mi danno fastidio così ho sempre gli occhiali da sole, anche quando piove.
A volte mi sveglio nel cuore della notte a parlare con la luna. La mamma mi stringe forte e mi chiede: “Puoi parlare?” Io le rispondo, ma le parole escono strane, non sono mai come le penso.
La mamma mi chiama “signorina” e “cicciottina bella”, ma il mio soprannome preferito è “Princess”. Mi ha detto di non illudermi, non sono una vera principessa, nonostante il nome: è solo che quando mi sento offesa, me ne vado a testa alta, mascella in fuori e corona ben ferma.
Se sono felice, sorrido, grido e salto.
Se sono arrabbiata, urlo e mi butto a terra.
Se sono triste, mi trema il labbro inferiore e mi sento incompresa.
Se penso di avere ragione, rimbecco fino allo stremo delle mie forze.
Se penso di essere nel torto, faccio la ruffiana e dispenso bacetti.
Come, bambina? Anche tu fai così? Allora non siamo tanto diverse, io e te.
Penso di averti detto tutto di me.
Ah, già… Sono autistica…
No, non sono malata, non mi ammalo quasi mai. Ho solo un modo diverso di interpretare il mondo.
Sono una bambina.
Ho quasi 8 anni.
Ho i miei gusti.
Ho i miei punti di forza e i miei limiti contro i quali lotto ogni giorno, ma che non posso sempre superare.
Sono autistica.
Bambina con il cane, la prossima volta che mi incontri, guardami per quello che sono e non solo per come mi comporto: sono una bambina che vorrebbe avere tanti amici, ma il cui migliore amico è il suo cane.
Ferma al semaforo, sposta la borsa della spesa da una mano all’altra. Si ravvia i capelli scompigliati dal vento e increspati dall’umidità, sistema l’ombrello che le sta scivolando dall’incavo tra il collo e la spalla. Stringendosi nella sciarpa, inclina l’ombrello all’indietro e alza lo sguardo verso il cielo: la pioggerellina autunnale non dà tregua, il cielo plumbeo lascia intendere che potrebbe piovere per giorni, per mesi, forse per sempre. Pesanti nuvole grigie gonfie di pioggia viaggiano veloci in direzione delle montagne, il vento gelido sferza i palazzi, il parco e i passanti.
Si guarda in giro.
L’anziana signora di fianco sta borbottando qualcosa contro i prezzi della verdura. L’eleganza senza tempo della camicia grigia abbottonata fino al collo, del cardigan verde stretto in vita e della gonna di lana cotta grigia, della medesima tonalità della camicia, è strattonata dalle scarpe con i lacci. Scarpe brutte, ma comode, le calzature tipiche di chi teme di scivolare nei sottoportici sferzati dalla pioggia e dal vento. Le scarpe le ricordano la nonna con la quale parla tutte le sere, sebbene sia morta da quasi due anni.
Dall’altro lato della strada due adolescenti ascoltano musica da gigantesce cuffie wi-fi in parte nascoste dai berretti di lana, unica protezione contro il mal tempo. Ridacchiano e parlano ad alta voce, gli zaini che pendono dalle spalle magre. I jeans strappati, i giubbotti informi aperti sulle camicie scozzesi rosse e le grandi scarpe le fanno supporre che siano skaters. Li immagina volteggiare sulle loro tavole nel parco all’angolo. Anche lei, una vita fa, non usava l’ombrello, preferiva bagnarsi tutta mentre tornava da scuola. I capelli diventavano lunghi fusilli biondi che le cadevano scompigliati sulla schiena e lei si sentiva stranamente carina.
I fanali delle auto si riflettono nelle pozzanghere, piccoli soli pallidi che fremono per partire. I conducenti scrivono al telefono, oscillano la testa al ritmo di una qualche canzone passata alla radio, parlano con i figli seduti sui sedili posteriori guardandoli dallo specchietto retrovisore.
Le foglie gialle vengono rapidamente trascinate al suolo dal vento e dalla pioggia: un tappeto morbido e colorato che ravviva l’asfalto scuro e granuloso.
Il semaforo è ancora rosso, un’attesa lunga una vita come il suo sogno congelato in un eterno istante. Da anni ormai il suo unico desiderio è sentire la figlia parlare. Immagina la sua voce: un po’ arrugginita, gialla come le foglie sull’asfalto, ma perfetta nella sua completa immaturità.
Le automobili iniziano a rallentare, un motorino accelera e centra una pozzanghera alzando una bassa onda di acqua fangosa.
Controlla nuovamente il semaforo. Allo scattare del verde, inizia cautamente ad attraversare: la schiena leggermente piegata in avanti, a metà strada fa una corsetta per trovare riparo nei portici dove scaramanticamente chiude l’ombrello. Guarda distrattamente le vetrine, mentre ripensa alla signora anziana e ai due adolescenti: il passato ed il futuro, ciò che è stato e ciò che sarà. Il passato non è più nelle sue mani, ma il futuro è plastico, lo può costruire giorno per giorno. Se solo non fosse sempre così stanca, se solo la figlia facesse qualche progresso importante, se solo il figlio non fosse così coscienzioso e maturo per la sua età. Se, se, se… La nonna diceva sempre: «Con i se e con i ma la storia non si fa». Conosceva un sacco di proverbi la nonna e alcuni suoi modi di dire erano diventati dei veri e propri aforismi famigliari: «Anche sulla nuda roccia cresce un tenero fiore», «San Luigi diceva sempre che non avrebbe mai voluto tornare bambino per non soffrire più la sete», «Non ci si deve mai arrabbiare con il cibo». Saggezza popolare di chi aveva sofferto la fame durante la guerra. Istintivamente si porta la mano al collo e tocca la collana che la nonna le aveva regalato il giorno del suo matrimonio, un gesto pieno di amore che gliela fa sentire vicina. Da quando è morta, porta sempre con sé il gioiello, non lo toglie mai, un talismano contro la paura e la solitudine che spesso le stringono il cuore in una morsa gelida.
Si sofferma a guardare i confetti disposti nelle argenterie di un negozio la cui insegna vezzosa dice “Bomboniere, argenti e confetti”. Un piccolo Pinocchio lucido, gli occhi verdi ed il naso impertinente, la fissa con insolenza. Lei contraccambia con aria aggressiva, sposta lo sguardo su uno specchio ovale dalla cornice cesellata e vi vede riflessa una donna che non conosce. Ci mette qualche secondo a capire che quella riflessa è lei stessa. Quando è successo che è diventata una donna di mezza età? Chi lo ha permesso?
Sorride amaramente allo specchio mentre si studia senza pietà. I capelli ricci resi crespi dalla pioggia avrebbero bisogno di un buon taglio e di essere tinti: la ricrescita grigia urla al mondo che non solo è invecchiata precocemente, ma non ha nemmeno il tempo di prendersi cura di se stessa. Una piccola gobba sul naso, ricordo di uno scontro con lo stipite della porta, le fa pendere gli occhiali a sinistra. Gli occhi sono chiari, resi più grigi dalla giornata, ma spenti. La bocca, un tempo sempre sorridente, è imbronciata e circondata da profondi segni di espressione, fratelli dei due che le spuntano tra le sopracciglia ogni volta che si fa pensierosa. Sorride a denti stretti, perché non le piacciono, li ha sempre odiati quei denti grandi e storti, e in fondo che c’è da sorridere nella sua vita? La figlia ha sette anni ormai, non parla, chiusa in un mondo che spesso la rende irraggiungibile, il figlio sta crescendo da solo e si fa carico dei problemi della sorella, il marito è spesso fuori casa. Una vita fatta di lunghe giornate passate in automobile per portare la figlia ad abilitazione e di fine settimana chiusi in casa aspettando un raggio di sole che non arriva mai.
Si dà un ultimo sguardo, fa una linguaccia alla propria immagine e riprende a passeggiare. Sposta nuovamente la borsa della spesa e sistema l’ombrello al braccio pensando alla cena: un tempo le piaceva molto cucinare per la famiglia, aveva l’impressione che riempire lo stomaco dei suoi cari fosse un modo per saziare anche la loro anima, ma ora non è più così. Ogni pasto è una battaglia fatta di urla, richiami, inseguimenti. La bambina è così rigida che mangia sempre le stesse cose, fatte sempre alla stessa maniera. Il tonno deve essere rigorosamente di una certa marca, la brioche si può acquistare solo in un bar, la pizza espressamente con i würstel… Scuote la testa pensando a tutte le volte che ha dovuto preparare le lasagne a casa propria con la figlia di fianco per portarle a casa della madre: la piccola è diffidente, rigida e ogni piccola diversità olfattiva o gustativa può scatenare una crisi. Lei soffre da impazzire quando la bambina si batte in testa, le mani strette in piccoli pugni, gli occhi pieni di lacrime e quell’urlo di rabbia, dolore, frustrazione… A volte si sveglia nel cuore della notte con quel grido nella mente e si sente impotente, inadeguata, una fallita.
Un’immagine all’improvviso si fa largo tra i suoi tristi pensieri. Si ferma, gira rapida su se stessa e torna sui suoi passi. Questa volta evita lo specchio, non incrocia quello sguardo triste che non riconosce come suo. Si convince che lo specchio è rotto: lei non è così, è lui che rimanda un’immagine fallace. Lei non è triste, lei è la roccia di famiglia. Spesso si sente Atlante, porta un peso enorme sulla schiena, tanto da affermare ironicamente che le sue ernie sono dovute al peso del mondo che ogni giorno porta sulle spalle.
Procede rapida, l’immagine fissata nella retina, è sicura di aver colto un bagliore rosso. È nuovamente al semaforo. Abbassa lo sguardo ed eccolo lì, il suo rosso: a terra, vicino allo scolo, c’è una piantina che lotta contro la pioggia, contro il freddo. Una piccola resiliente che combatte contro le difficoltà del mondo.
La guarda sorridendo, si tocca la collana e mormora: «Nonna, hai ragione! Anche sulla nuda roccia cresce un tenero fiore e se lui lotta e resiste, anch’io ce la posso fare.»
Entra nel supermercato in cui poco prima, o forse una vita fa, ha fatto spesa ed acquista un vaso e del terriccio. Torna rapidamente dalla sua nuova amica, si accovaccia, estrae delicatamente la piantina dall’asfalto e la depone nel vaso con il terriccio: la porterà a casa e la metterà sul davanzale della cucina, così tutti i giorni la pianta le ricorderà che, anche quando le cose sembrano andare davvero male, nulla è definitivamente perduto.
Si alza, raccoglie le borse, l’ombrello ed il vaso e si dirige verso il parcheggio canticchiando stonata:
«Questa è la mia vita, Se ho bisogno te lo dico, Sono io che guido,
Io che vado fuori strada, Sempre io che pago,
Non è mai successo che pagassero per me…» 1
Ha smesso di piovere. Dietro le nuvole grigie il sole sta tramontando in un fugace lampo rosso scarlatto.