Le urla riecheggiano tra le rocce, rimbalzano sui pini mughi e vengono infine portate via dal vento che si è improvvisamente alzato a sferzare l’anfiteatro. Stretti nei loro giubbotti leggeri, cercano conforto gli uni negli altri, accovacciati su una roccia piatta.
La bambina bionda è arrabbiata, stanca e grida al cielo tutto il suo disagio. Se potesse parlare probabilmente chiederebbe ai genitori: “Perché?
I due fratellini sono schiacciati dalla fatica, ogni pochi metri si fermano e si siedono. Ora, seduti su quella roccia dura e spigolosa, ma nonostante tutto confortevole, si abbracciano stretti. La madre soffre, i piedi doloranti negli scarponi per aver ceduto i calzini al figlio. L’unico che non si piega è il padre, ma lui è abituato alla montagna e ne conosce tutte le sfumature. Lui rispetta la montagna: sa quando si può continuare e quando ci si deve fermare, quando è un’imponente amica e quando una temibile avversaria. Quel giorno, però, ha sottovalutato il percorso e sopravvalutato i suoi compagni di viaggio. Un errore da principiante commesso per la smania di tornare sui monti che tanto ama, per il desiderio di abbracciare ancora una volta il suo Friuli dall’alto. Forse nel suo profondo, ma non lo ammetterà mai, quelle escursioni con la famiglia gli danno l’illusione di poter ancora controllare il loro mondo, di poter essere una valida guida per la moglie, ma soprattutto per il figlio, quel bambino tanto coscienzioso e responsabile. Il bambino ha uno sguardo troppo intenso per i suoi otto anni, manca di leggerezza, sta crescendo troppo in fretta. No, non va bene.
Sono nuovamente fermi, hanno fatto solo pochi metri e stanno raccogliendo le forze per affrontare la ciottolosa discesa. I pensieri vagano, corrono veloci come quello stormo di cornacchie che è appena passato sopra le loro teste. Il padre avrebbe dovuto intuire dai piccoli segnali che erano arrivati da più parti che quel giorno le cose non sarebbero andate bene. Non riesce a capacitarsi di come tutto sia andato storto, niente di così grave da farlo desistere dall’ascesa al lago, ma nemmeno così perfetto, come invece, lasciava intendere quell’azzurra giornata di ottobre.
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Erano partiti tardi da casa, poiché la figlia, come al solito, quando aveva visto dove erano diretti, aveva iniziato a fare i capricci: possibile che non le piacesse la montagna? La bambina era bellissima con sguardo concentrato che sembrava leggere nel profondo dell’anima, ma era un vero enigma che lui non riusciva a spiegarsi. Aveva letto tutto lo scibile scientifico sulla condizione della figlia, ma non era riuscito a capire perché fosse successo a lei, a lui, a loro. All’inizio, prima della diagnosi, aveva un rapporto di amore e odio con quella strana creatura così diversa dal fratello, non sopportava i suoi strepiti ed il suo carattere chiuso e scostante.
Dopo quella diagnosi, che alle sue orecchie era quasi sembrata una sentenza, si era sentito in colpa per non aver capito che la bambina era autistica. Erano passati anni da allora, il dolore si era un po’ affievolito, così non era per la preoccupazione: i progressi sperati non erano arrivati, la piccola non parlava, era molto chiusa in se stessa e comunicava poco. Si muoveva leggera sulle punte e agitava velocemente le manine: era una ballerina in perenne movimento. Camminare in montagna con lei era un vero rischio, era soprattutto la discesa a fare paura, ma era sempre riuscito a gestirla. Ce l’avrebbe fatta anche quella volta, era sereno, era sicuro che tutto sarebbe andato bene anche in quell’escursione.
Durante la salita avevano dovuto fronteggiare alcuni piccoli contrattempi: la smania di salire gli aveva fatto scordare di indossare gli scarponi, ma, nonostante tutto, aveva camminato sicuro su quel sentiero sassoso, mano nella mano con la figlia. Ogni volta che avevano incontrato un cane, l’aveva dovuta prendere in braccio, perché lei ne aveva paura, soprattutto se erano grandi e neri. Mentre camminava la sua mente viaggiava veloce e quella era una delle cose che più amava delle escursioni: il silenzio rotto solo dal respiro, il cuore che reagiva alla fatica e pompava il sangue nelle vene, il cervello che, lontano dalla confusione del quotidiano, rimetteva le cose nella giusta prospettiva. Come con la questione del cane: la moglie aveva ragione a volerne prendere uno, avrebbe fatto bene a tutta la famiglia, ma era un impegno troppo gravoso per loro. Durante l’altra gita in montagna avevano cantato in auto diverse canzoncine per bambini, storpiandole e ridendo come sciocchi, un raro momento di gioia in una vita faticosa e difficile da spiegare ad un bambino. Il piccolo aveva cantato «Vogliamo avere un cane» e la moglie, perfidamente, lo aveva registrato e da allora usava la canzone come suoneria del telefono in modo tale che quel piccolo, grande desiderio del figlio fosse sempre lì, sospeso tra di loro.
La moglie ed il figlio lo precedevano, camminavano veloci, però c’era qualcosa di strano nel bambino: spesso rallentava, sembrava sofferente, il passo zoppicante. Li teneva d’occhio, mentre le loro teste sparivano e ricomparivano tra i pini mughi finché li aveva persi di vista dietro una curva. Quando erano ricomparsi nella sua visuale, erano entrambi seduti su una roccia e senza scarponi. Non solo, la moglie si stava togliendo un calzino e lo stava porgendo al figlio. Si era avvicinato rapido senza mai lasciare la mano della bambina, voleva capire cosa stesse succedendo: il piccolo aveva le vesciche ai piedi perché aveva indossato dei calzini non adatti a un’escursione in montagna e la moglie si stava togliendo i propri per passarli al bambino che era mortificato. Testa basse, spalle incurvate, labbro tremante, era prossimo al pianto.
«Scusa, papà…»
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Quelle due parole gli rimbombano nella testa da quel momento, anche adesso, mentre scendono piano piano in fila indiana, con la bambina che piange ed urla insofferente a quell’inutile attività a cui la sottopongono i genitori. Per fortuna il vento si è placato, le nuvole si sono lentamente allontanate. «Scusa, papà…» Come se fosse il bambino a doversi scusare. Lui e la moglie parlano spesso del futuro della bambina, della preoccupazione per quello che succederà a quella bellissima ed incomprensibile creatura quando loro non ci saranno più, del loro desiderio di lasciare al figlio il diritto di scegliere del proprio futuro, ma forse stanno fallendo. La preoccupazione per ciò che avverrà dopo di loro alla bambina, probabilmente li sta portando a fare pressioni inconsapevoli al figlio, tanto che questi ha confessato al nonno che non si sposerà mai perché nel suo destino ci sarà l’accudimento della sorella.
«Eh, no, figlio mio!» rimugina. «Scusa tu per la nostra inadeguatezza, per il nostro dolore mal celato, per il poco tempo che ti stiamo dedicando.»
Mentre la bambina assorbe tutte le loro energie, il bambino sta crescendo da solo: è molto responsabile, troppo e sempre ansioso di fare la cosa giusta. Nel suo piccolo mondo fanciullo, l’errore non è contemplato e quando accade è vissuto come un fallimento personale. Il bambino ha deciso che deve essere il miglior figlio del mondo per non dare altre preoccupazioni ai genitori ottenendo paradossalmente l’effetto opposto. Un bambino è un bambino, perdio! Un bambino deve poter sbagliare ed imparare dai propri errori, essere egoista e non voler condividere le patatine con la sorella, litigare con la peste di casa per il possesso del telecomando. Suo figlio, invece, accontenta la sorella in tutto ed è sempre accondiscendente pur di non creare ulteriore tensione in famiglia. Proprio come era successo prima al rifugio.
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Quando erano ripartiti, dopo lo scambio di calzettoni, mancava ormai poco alla cima. Per convincere la bambina a continuare quell’estenuante salita, le avevano promesso che, appena arrivati al rifugio, avrebbero mangiato una Wienerschnitzel. Contavano alla rovescia per scandire il tempo e continuavano a parlare della bistecca impanata.
«Sessanta… Cinquantanove… Cinquantotto… Cinquantasette… Dài, che quando arriviamo mangi il pollo… Cinquantasei… Cinquantacinque… Cinquantaquattro… Coraggio, manca poco, dobbiamo solo arrivare là, dall’altra parte del lago… Cinquantatré… Cinquantadue… Cinquantuno…»
Numeri scanditi lentamente, dilatati nel tempo di un’ascesa apparentemente infinita.
Purtroppo al loro arrivo avevano scoperto che la cucina era chiusa e che potevano scegliere solo taglieri di affettati o dolci tipici austriaci. La piccola, rigida e selettiva quando si trattava di cibo, ovviamente non aveva mangiato nulla, accontentandosi di sbocconcellare il pane preso al paese, ma ormai un po’ stantio. Lo sguardo imbronciato, le manine agitate, continuava a esprimere il suo disappunto in un eterno vocalizzo stereotipato. Il bambino, invece, per non creare problemi, aveva deciso di mangiare un po’ di prosciutto: aveva capito che lui era stanco e arrabbiato per non aver potuto mantenere la promessa fatta alla figlia. Stranamente la moglie non aveva voluto mangiare nulla, già in ansia per la discesa. Accidenti a lei, a quel dannato vizio di correre sempre troppo avanti, di non pensare mai al domani, sempre dieci passi avanti a lui nelle preoccupazioni!
Erano rimasti poco al rifugio, perché, oltre le finestrelle ornate di gerani, avanzavano minacciose nubi grigie. Si erano infilati nuovamente i giubbotti ed avevano iniziato la discesa tra le folate della montanara e le urla della bambina, tradita e ormai priva di motivazioni a scendere da quella montagna, finché si erano fermati su una roccia piatta a cercare un po’ di riparo. Le gambe rigide, i piedi fuori controllo, la mente occupata a valutare attentamente il percorso meno pericoloso, la discesa si stava rivelando davvero impegnativa.
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Sono arrivati al limitare del bosco, non manca molto, il sentiero impervio è finito: il padre tira un respiro di sollievo. Anche questa volta ce l’ha fatta, lo sapeva che sarebbe andato tutto bene. È vero, hanno faticato più del solito, ma insieme ce l’hanno fatta. L’ultimo tratto è facile, letteralmente una passeggiata immersa nelle calde tonalità del rosso e dell’arancio con cui si veste il bosco in questa stagione. Si sente così bene adesso, che prende la figlia e se la carica sulle spalle. La moglie ed il figlio arriveranno, sono a qualche tornante di distanza, non li hai mai persi di vita: lei precede il bambino, si assicura che sia sempre in posizione di sicurezza e lo aiuta a scendere nei tratti più difficili, ma sono lenti, troppo lenti per lui che ora scende leggero, con la bambina che gli poggia la guancia sulla testa.
Sono ormai un’unica figura che in controluce si stringe in un abbraccio di indissolubile amore.
Una volta raggiunti il marito e la figlia al rifugio a valle, la madre si siede su di una panchina al sole, si toglie gli scarponi e si massaggia i piedi doloranti. I figli stanno salendo e scendendo dallo scivolo in un prezioso quanto raro momento di unione fraterna, il marito è all’interno ad ordinare. Lei stende le gambe sulla panchina, si gode quelle ultime azzurre giornate di ottobre, il cielo ora terso. L’eterna golosa ha finalmente fame, lo stomaco rilassato dopo la tensione della gita: in certi momenti aveva avuto paura di non farcela, non riusciva a controllare i piedi, ma cercava di mantenere un aspetto sereno per il figlio. Il ginocchio destra era gonfio e dolorante, ma, per sdrammatizzare, cantava stonata:
«Lo sai che la Tachipirina 500 / Se ne prendi due diventa mille…» ¹
Il bambino rideva e lei, nonostante tutto, era felice.
La cameriera le porta il the caldo e lo strudel con la panna. Mescola lo zucchero lentamente in senso orario, la mente sgombra da fastidiosi pensieri e beata da quel raro momento di normalità famigliare. Prende la forchetta e dosa una piccola porzione di strudel e panna, se la porta alla bocca ed assapora lentamente. In quel momento arriva la bambina, la sua piccola me, il suo specchio, e comincia a tirarla per un braccio. Si sfidano con lo sguardo in un silenzioso scontro di volontà.
«Vieni, andiamo via! Basta per oggi! » dice quello della piccola.
«Aspetta! Sto mangiando! » ribatte quello della madre.
Errore fatale di cui si rende conto troppo tardi: la figlia strizza gli occhi, sorride furbescamente e con un colpo secco della mano fa cadere il piatto sull’erba.
Lo sguardo della piccola peste è ora trionfante, mentre la madre rassegnata si alza e, guardando il marito, scuote la testa mormorando: «Mai una gioia! »
Si guardano negli occhi e scoppiano a ridere: la vita li mette quotidianamente a dura prova, spesso sono in disaccordo, ma quegli istanti di complicità ritrovata rendono il loro viaggio più lieve, quasi come una passeggiata nel bosco.

…¹ Calcutta, “Paracetamolo”