Ariel · Il mondo intorno a noi

La storia si lascia raccontare

La vacanza è andata bene, tutto bellissimo. Ariel è stata super collaborativa e ha pure decantato la Divina Commedia in versi.

La storia si lascia raccontare: contano solo i fatti e le prove documentali, poiché ognuno di noi può raccontare il proprio vissuto e non è detto che sia esattamente rispondente alla realtà, dando quindi un’immagine di sé e di chi ci è vicino non oggettiva, poiché filtrata dalle proprie emozioni.

La verità sulla vacanza è che ogni giorno è stato funestato da crisi di autolesionismo ed eteroaggressività. In vacanza come a casa, nulla è, ahimè, cambiato.

I sovraccarichi sensoriali si riproducono come Gremlins (ieri è bastato il canto delle cicale), nuove rigidità (adesso annusa pure l’acqua), mentre alcuni cartoni animati si trasformano in ossessioni da vedere e rivedere, finché fanno male, finché diventa tutto troppo doloroso.

Mi piacerebbe parlarvi dei grandi progressi di Ariel, delle cose buffe che dice, affermare che le sedute al centro non servono, che anzi la vogliono solo normalizzare. Vorrei davvero potervi dire che lei è stata scambiata per pigra e visionaria quando riferiva le sue crisi, anzi mi piacerebbe che ve lo raccontasse lei.

Invece io mi ritrovo a parlare di una condizione che non consente di passare 5 giorni sereni nemmeno in vacanza, nemmeno quando credo di aver pensato a tutto e poi mi accorgo che l’unica vera costante indipendente dalla mia volontà, ma fondamentale, è lo stato di salute psicofisico di della Princess. E su quello non posso nulla, se non cercare di prevenire, di alleviare, di consolare.

Questo è il tipo di funzionamento che non permette mai di abbassare la guardia, che insegna che le ore di sonno vanno sfruttate meglio possibile per avere sufficienti risorse per fronteggiare le lunghe giornate e le infinite nottate.
Il mio sogno di una casa perfetta è diventato un’utopia: i muri, tinteggiati lo scorso anno, pare che non vedano un imbianchino da decenni; la camera è stata sfondata durante le sue crisi, il giardino è incolto, perché o mi prendo cura di lui o mi prendo cura di lei.

Quello della Princess è un autismo fatto di botte in testa, di ginocchiate in faccia, di “capa a muro”, di meltdown pressoché quotidiani, di incapacità di comunicare i propri stati d’animo.

In questo momento la mia narrazione non è rassicurante, non illude sul futuro di Ariel, ma non vuole nemmeno negare che i ragazzi possono migliorare. Lungi da me voler togliere la speranza ad un genitore! Questa è Ariel, questa è la mia vita con lei.

Fortunatamente non per tutti è così gravosa. Capisco chi si vuole abbeverare alla fonte di chi infonde speranza in un futuro luminoso, probabilmente lo avrei fatto pure io al momento della sua diagnosi.

Quando vedo un genitore in difficoltà con la propria creatura, penso alla nostra fatica, di Ariel in primis, ma anche mia e di Davide, e spero sempre che a loro le cose vadano meglio, che ci sia un click che permetta loro di trovare la giusta chiave di sviluppo e crescita reciproci, perché una cosa è sacrosanta: con i nostri figli si impara e si cresce ogni giorno. Loro attivano costantemente il nostro pensiero divergente, costringendoci ad accantonare la nostra forma mentis per cercare di capire la loro, ci fanno spogliare del nostro funzionamento per entrare nel loro.

L’attuale condizione di Ariel, la fotografia di questi ultimi 10 mesi mi fa chiedere: dov’è la dignità di una vita in cui ci sono solo rarissimi sprazzi di serenità ai quali attingere per far fronte al resto della giornata? Perché lei non può essere serena? Non la sogno più madre di famiglia o giovane sposa all’altare, non sento più la sua voce gialla bucare il sonno, non ho più aspettative di una vita autonoma per lei. La serenità, però… Almeno quella, cazzo!

Amo Ariel, la amo da impazzire, non riesco ad immaginare la mia vita senza di lei, ma in questi anni mi ha lentamente divorata. Mi sento vecchia, sfinita, mi guardo allo specchio e non mi riconosco.

Intanto, siccome la storia si lascia raccontare, pubblico questa fotografia, così chi non ha voglia di leggere e si è fermato al primo paragrafo senza approfondire ulteriormente, può continuare ad immaginare che tutto stia andando bene. I video, quelli della realtà, non li pubblico: non è dignitoso per lei e non è piacevole a vedersi, soprattutto per chi non sa cosa sia una crisi autolesionistica. Perché li faccio? Perché è piena di ematomi e devo poter dimostrare che sono autoinflitti, poiché essere un genitore di una persona come Ariel significa dover pensare anche a questo: prevenire eventuali accuse di abusi, anche se il suo comportamento è ormai pervasivo e quindi sotto gli occhi di tutti.

Non lascio alcuna morale né suggerimento su ciò che voglio comunicare, ognuno tragga le proprie conclusioni per quella che è la propria esperienza con l’autismo. Io, intanto, continuo a guardare la verità in faccia e a cercare un modo per aiutare Ariel a stare bene. Del resto, ormai, poco mi importa.

Un’ultima cosa, però, la voglio dire a chi non conosce l’autismo. Ascoltate i video degli attivisti, leggete i loro libri e le loro pagine sui social, seguite le loro dirette e i loro webinar, ma ricordate: quella è solo una delle mille sfumature dello spettro autistico. Ci sono persone autistiche che non escono mai di casa, che non parlano, che non sanno comunicare e sono quelle di cui è meno divertente leggere o parlare.

Non dimenticatevi di loro, altrimenti arriveremo al paradosso del

“Non scrive, non parla, non fa i Tiktok. Sicura che sia autistica? Fammi vedere la sua diagnosi.”

La mamma "autistica"

La notte

La notte è fatta per sognare, piangere, arrabbiarsi, ponderare, bere tisane, guardare film bellissimi, odiare film bruttissimi, leggere, stirare, scrivere, viaggiare, guardare le stelle, cercare il chiù chiù, programmare, cucinare, morire, vivere, ballare, dormire.

Fare l’amore.

La mia notte è fatta di respiri, sospiri, ticchettii, ronzii, gocciolii, miagolii, gracidii, pensieri vorticosi, sogni acquosi, buio, luce, sonno, rabbia, fatica, dolori, dolcezza, domande.

Paura del futuro.

Immagine tratta da pexels.com
Il mondo intorno a noi

La domanda più difficile

La solitudine di una famiglia con un figlio disabile è roba forte che solo pochi riescono a guardare in faccia.

Più facile girarsi dall’altra parte e usarla come termometro del proprio benessere.

Non compatiteci: la pietà di taluni sguardi è discriminante tanto quanto il fastidio o la paura ed è anche subdola, poiché inconsapevole e permeata da un senso di perbenismo difficile da scalfire.

La solitudine rosicchia l’anima giorno dopo giorno e alla fine lascia dietro di sé famiglie stremate dalla fatica e dalla consapevolezza che domani quella creatura tanto amata, protetta, accudita verrà considerata solo un peso sociale, ridotta ad una diagnosi , spersonalizzata di tutte le sue qualità, inquadrata nei propri deficit.

Dateci la possibilità di farvi conoscere i nostri figli e capirete che sono molto di più quanto possiate immaginare.

Avete mai invitato uno di noi a prendere un caffè? Ma non in un ipotetico domani, adesso, subito ché il dolore è impaziente, non aspetta che voi siate liberi da impegni.

Non cambiate strada quando ci incontrate: possiamo essere faticosi, noiosi, pesanti, monotematici, ma quelle quattro chiacchiere scambiate con voi potrebbero essere le nostre uniche interazioni con adulti senzienti della giornata.

Mi commuove chi ha il coraggio di porgerci la domanda più difficile del mondo:

“COME STAI?”

Difficile per chi la rivolge, poiché è una domanda aperta, subdola che potrebbe avere mille risvolti tra i quali una slavina di lagna o un mare di dolore; difficile per noi che la riceviamo che, non conoscendo il reale interesse alla nostra risposta, spesso non abbiamo il coraggio di dire la verità. Così, sorridendo, ci rifugiamo in un asintomatico “Bene, dài!”, la tristezza negli occhi celata dagli occhiali scuri.

Ma fatela questa domanda!

Mal che vada perderete cinque minuti ad ascoltare un genitore sfiancato dalla routine (tanto difficilmente abbiamo più tempo a disposizione), ma potreste alleviare un po’ la nostra fatica, perché condividere un peso, anche per solo qualche metro, rende la vita meno pesante, anche a noi che a qualcuno piace pensare dotati di superpoteri. In questa ottica possiamo affrontare tutto più facilmente: la fatica è meno fatica, il dolore è meno dolore, gli obiettivi raggiunti dai nostri figli sono merito nostro (invece sono merito soprattutto loro, noi possiamo solo supportare, non sostituirci a loro) e sicuramente meno faticosi che se conquistati con le sole umane forze.

E invece vi voglio svelare un segreto.

Non abbiamo superpoteri, siamo solo genitori, ma con il potere umano più forte del mondo: l’amore per i nostri figli.

Sono certa della buonafede di molti e che esprimere taluni complimenti sia un modo per farci sentire apprezzati e importanti, ma noi non vogliamo nulla di tutto questo.

Noi vogliamo un mondo migliore per i nostri figli. Un mondo in cui non ci sia bisogno di una parola come “inclusività” affinché possano vivere vite degne al pari dei loro coetanei e in cui vengano apprezzati per loro stessi e non per ciò che una società buonista li vorrebbe: buoni e bravi, angeli mandati in terra per redimere un mondo brutto e cattivo. Se verranno trattati da persone e non da diagnosi, quando arriverà il momento potremo morire sereni, fino ad allora il loro futuro sarà sempre la maggiore fonte di dolore e preoccupazione.

Cosa vorrei trovare per la mia famiglia sotto l’albero di Natale?

Una lattina di serenità, un pacchetto di riposo, un barattolo di comprensione e una spolverata di felicità.

Per me, invece, un cappuccino con le amiche, non importa se in tazza o in bicchiere di vetro, se caldo o tiepido, con o senza cacao. Un semplice cappuccino, beatamente seduta fronte porta, senza dover costantemente monitorare tutte le possibili vie di fuga di una Principessa stratega dell’evasione silenziosa. Un cappuccino e due bustine di zucchero, perché la vita sa già essere sufficientemente amara da sé.

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Libera

Ariel dorme con me. Ha bisogno di sentirmi vicina per riposare serena: il suo sonno è leggero come carta velina.

Amo guardarla mentre riposa e mi chiedo spesso cosa sogni, se sia felice, soddisfatta della sua vita.

Ha quasi 10 anni e le bambine a questa età stanno già sbocciando, ragazzine pronte a prendere il volo, mentre salutano le mamme entrando a scuola con gli zaini colorati che ballonzolano sulle schiene e poi dimenticandosi in fretta di loro mentre chiacchierano con le amiche.

Ariel non ha tutto questo.

I suoi migliori amici sono il nonno e Baloo.

Affetti veri e importanti, ma che non potranno mai sostituire il rapporto con gli amici. Certo, i compagni le vogliono bene, ma le loro sono strade divergenti.

Mi chiedo cosa vorrebbe fare da grande, ma non riesco a darmi risposte.

Così tutte le sere, lo chiedo direttamente a lei:

“Sei serena? Sei soddisfatta della tua vita?”

A volte sorride e mi abbraccia, altre mi guarda triste e nasconde la testa sotto al cuscino. In quei momenti muoio un po’, ma quando sorride…

Quando sorride, il cuore corre leggero e spero che l’amore che provo per lei sia protezione e non catena e le consenta di scappare via da me prima o poi, perché come disse Davide anni fa:

“Lei corre sempre, perché vuole essere libera.”

La Baby Princess corre felice
Ariel · La mamma "autistica"

Quello che non riesco ancora a fare

Stavo cercando una vecchia immagine e ho realizzato che dopo tutti questi anni ci sono due cose che non riesco ancora a fare: guardare le fotografie e i vestiti di Ariel da piccola, quando tutto era ancora possibile e i piccoli problemi sembravano enormi.
 
Guardo il suo sorriso fiducioso, rivedo me e Luca inconsapevoli e il cuore sprofonda in una palude di dolore.
 
Mi tolgo gli occhiali e piango pensando a ciò che sarebbe potuto essere e non sarà: questo non è il momento delle belle frasi piene di autoconsapevolezza e di etica. Questo è il momento del dolore e della rabbia, dell’impotenza e della voglia di rivalsa per una bambina che non sarà mai autonoma.
 
Ariel è appena entrata in punta di piedi e anticipata dai suoi vocalizzi: mi ha rimesso gli occhiali, perché la mamma senza occhiali non è mai una mamma felice, mi si è seduta in braccio e, guardandomi negli occhi, mi ha abbracciata stretta. Ho ricambiato forte e le ho solo detto: “Mi dispiace, non doveva andare così.”
Ha sorriso, mi ha chiesto il telefono e se ne è già andata soddisfatta per aver ottenuto ciò che voleva.
 
Io resto a guardare questa pagina bianca che è la vita di mia figlia e mi chiedo dove porterà questa strada lunga ed impervia e se sarò sufficientemente forte per costruire un pallido sostituto di quel futuro che avrebbe dovuto creare da sola.
luca ariel
Ariel · Davide · Il mondo intorno a noi

Ognuno vola a modo suo

Da bambina volevo fare la hostess, volare intorno al mondo e scoprire luoghi magici e lontani.

Da ragazzina volevo fare la guida turistica, accompagnare le persone a visitare i luoghi più belli della Terra, aiutarle ad apprezzare la bellezza e l’unicità di ciò che avrebbero visto.

Da neodiplomata sognavo un lavoro in agenzia: volevo rendere felici le persone organizzando viaggi che regalassero loro ricordi lunghi una vita.

Non ho mai fatto nulla di questo, per lavoro intendo: il piacere del viaggio è una delle poche cose che accomuna noi Apollonio, con l’eccezione di Baloo che preferirebbe stare a casa a dormire sul divano.

Davide mi ha confidato che da grande vuole inseguire il mio sogno che ora è il suo: viaggiare e volare intorno al mondo, fare la guida e conoscere ogni angolo di questo nostro meraviglio pianeta.

E Ariel? Ariel si chiude in una stanza e guarda la polvere filtrare dalle finestre, gioca con l’ombra delle saracinesche e sogna.

Cosa sogna? Non lo so.

Un genitore fin da subito inizia a immaginare il futuro dei propri figli.

Una diagnosi (qualunque essa sia) cambia questo futuro e i genitori sono costretti a rivedere le proprie aspettative, quei sogni che erano suoi e non della persona che hanno messo al mondo.

Anche una diagnosi di autismo ha questo effetto su noi genitori: cambia il futuro che avremmo desiderato per le nostre creature.

Come scrissi qualche tempo fa, la percezione che abbiamo vivendo le situazioni da spettatori piuttosto che da protagonisti è completamente diversa: mio marito va al lavoro sereno, sa i rischi che corre e cosa lo aspetterà, ha fiducia nelle proprie capacità, conosce i propri punti di forza e i propri limiti; io, invece, vivo in un perenne stato d’ansia per lui, perché posso solo immaginare quello che vivrà e vedrà durante la sua giornata in ospedale.

Con Ariel è la medesima cosa: quando non soffre per eventuali sovraccarichi sensoriali o non è frustrata per i suoi limiti comunicativi, quando ed è libera di essere se stessa, sta bene ed è serena, si piace e si vede da come si guarda soddisfatta allo specchio; io, invece, sto imparando un po’ alla volta a spogliarmi di ansia e dolore, per lasciare spazio all’amore… Già l’amore…

Un lettore del mio blog ha commentato l’articolo “CHI È L’AUTISMO?” con queste preziose parole:

Le persone che vorrebbero comprenderci sono quelle che ci vogliono bene, e purtroppo quel loro volerci bene, quelle emozioni così forti, gli rende quasi impossibile comprenderci, a volte persino accettarci (non è raro che degli ND suscitino profonde reazioni negative in genitori di altri ND).

E questa cosa secondo me è vera per tutti.

Per voler essere il più vicino possibile ad una persona devi volergli bene, tanto.

Ma questo voler bene, impedisce di vedere realmente la persona a cui vogliamo stare vicino.

È un gioco complicato, che richiede di guidare le emozioni con la ragione, e la ragione con le emozioni.

Perché, almeno per me, è impossibile volere realmente il bene di una persona, se non sai chi quella persona realmente è.

Caro Gius DB, hai ragione: di fronte ad una diagnosi un genitore deve fare un percorso di crescita personale, eliminare molto (dolore e a volte amore) per arrivare all’essenza e capire che la “normalità” è il concetto più astratto nella vita di ognuno di noi e che i nostri figli, indipendentemente dal funzionamento neurobiologico, devono seguire un loro percorso di crescita personale e realizzare i loro sogni, non i nostri.

Quindi…

Cosa sogna Ariel? Sicuramente non di fare il Pubblico Ministero come avrei desiderato per lei, più probabilmente vuole battere il record mondiale di volo con l’altalena.

E in questa primavera di quarantena, dove tutto il mondo è a rovescio, tranne la natura che continua a fiorire nonostante tutto, va benissimo così: Davide volerà intorno al mondo, Ariel acchiapperà le nuvole salendo sempre in più in alto.

Ognuno vola a modo suo.altalena

Il mondo intorno a noi

Cuore di mamma

All’improvviso si alza un vento freddo e violento. Il cielo diventa nero e nuvole dense di pioggia si avvicinano veloci, troppo veloci. Un attimo e l’acquazzone mi si rovescia addosso. Non cerco rifugio, non mi interessa. Sono persa nei miei pensieri: il futuro dei miei bambini è ormai un chiodo fisso che si muove rapido nel mio labirinto mentale.

Risalgo lentamente il ponte di legno che sovrasta lo stagno circondato da salici piangenti. Con lo sguardo cerco le anatre che di solito stazionano sul pontile: sono al riparo sotto un albero.

La pioggia si fa più violenta. Un fulmine violaceo si riflette nello specchio d’acqua butterato da milioni di fredde lacrime celesti Avanzo a testa bassa quando sento un richiamo determinato: è una mamma che ordina ai suoi piccoli di muoversi. “Piove, accidenti! Volete mettervi al riparo, piccoli testoni?”

I figli sono poco più avanti rispetto a me, li sento brontolare il loro disappunto: “Accidenti , mamma! Avevamo appena iniziato a divertirci! Sempre sul più bello…”

“Basta! Ora scendete altrimenti salgo io!”

Finalmente vedo le tre piccole pesti. Avanzano in fila indiana, protestando, ma sapendo che non c’è margine di trattativa: la mamma è davvero arrabbiata, senti come strepita!

Uno alla volta si posizionano e, con estrema grazia, saltano giù dritti nello stagno e si mettono in fila dietro alla mamma che li porta al riparo, non senza un ultimo rimbrotto: “Qua! Qua! Piccoli miei, siete davvero pestiferi: non si sta in acqua quando c’è il temporale! Qua! Qua!”

La famigliola si mette finalmente al sicuro sotto un salice piangente.

Zuppa come i miei amici anatroccoli, vado a recuperare Ariel a terapia: sono in abbondante anticipo, ma voglio essere lì a quando lei uscirà dalla seduta.

Aspettare, accudire, proteggere, educare, amare, lasciar andare sono i verbi che pulsano nel cuore di una mamma: non importa che tu sia sapiens o anatra, E figl so’ piezz‘ ‘e còre. Sempre e comunque.

anatroccoli che saltano

 

Ariel · Davide · La famiglia "autistica"

L’escursione

Le urla riecheggiano tra le rocce, rimbalzano sui pini mughi e vengono infine portate via dal vento che si è improvvisamente alzato a sferzare l’anfiteatro. Stretti nei loro giubbotti leggeri, cercano conforto gli uni negli altri, accovacciati su una roccia piatta.

La bambina bionda è arrabbiata, stanca e grida al cielo tutto il suo disagio. Se potesse parlare probabilmente chiederebbe ai genitori: “Perché?

I due fratellini sono schiacciati dalla fatica, ogni pochi metri si fermano e si siedono. Ora, seduti su quella roccia dura e spigolosa, ma nonostante tutto confortevole, si abbracciano stretti. La madre soffre, i piedi doloranti negli scarponi per aver ceduto i calzini al figlio. L’unico che non si piega è il padre, ma lui è abituato alla montagna e ne conosce tutte le sfumature. Lui rispetta la montagna: sa quando si può continuare e quando ci si deve fermare, quando è un’imponente amica e quando una temibile avversaria. Quel giorno, però, ha sottovalutato il percorso e sopravvalutato i suoi compagni di viaggio. Un errore da principiante commesso per la smania di tornare sui monti che tanto ama, per il desiderio di abbracciare ancora una volta il suo Friuli dall’alto. Forse nel suo profondo, ma non lo ammetterà mai, quelle escursioni con la famiglia gli danno l’illusione di poter ancora controllare il loro mondo, di poter essere una valida guida per la moglie, ma soprattutto per il figlio, quel bambino tanto coscienzioso e responsabile. Il bambino ha uno sguardo troppo intenso per i suoi otto anni, manca di leggerezza, sta crescendo troppo in fretta. No, non va bene.

Sono nuovamente fermi, hanno fatto solo pochi metri e stanno raccogliendo le forze per affrontare la ciottolosa discesa. I pensieri vagano, corrono veloci come quello stormo di cornacchie che è appena passato sopra le loro teste. Il padre avrebbe dovuto intuire dai piccoli segnali che erano arrivati da più parti che quel giorno le cose non sarebbero andate bene. Non riesce a capacitarsi di come tutto sia andato storto, niente di così grave da farlo desistere dall’ascesa al lago, ma nemmeno così perfetto, come invece, lasciava intendere quell’azzurra giornata di ottobre.

****

Erano partiti tardi da casa, poiché la figlia, come al solito, quando aveva visto dove erano diretti, aveva iniziato a fare i capricci: possibile che non le piacesse la montagna? La bambina era bellissima con sguardo concentrato che sembrava leggere nel profondo dell’anima, ma era un vero enigma che lui non riusciva a spiegarsi. Aveva letto tutto lo scibile scientifico sulla condizione della figlia, ma non era riuscito a capire perché fosse successo a lei, a lui, a loro. All’inizio, prima della diagnosi, aveva un rapporto di amore e odio con quella strana creatura così diversa dal fratello, non sopportava i suoi strepiti ed il suo carattere chiuso e scostante.

Dopo quella diagnosi, che alle sue orecchie era quasi sembrata una sentenza, si era sentito in colpa per non aver capito che la bambina era autistica. Erano passati anni da allora, il dolore si era un po’ affievolito, così non era per la preoccupazione: i progressi sperati non erano arrivati, la piccola non parlava, era molto chiusa in se stessa e comunicava poco. Si muoveva leggera sulle punte e agitava velocemente le manine: era una ballerina in perenne movimento. Camminare in montagna con lei era un vero rischio, era soprattutto la discesa a fare paura, ma era sempre riuscito a gestirla. Ce l’avrebbe fatta anche quella volta, era sereno, era sicuro che tutto sarebbe andato bene anche in quell’escursione.

Durante la salita avevano dovuto fronteggiare alcuni piccoli contrattempi: la smania di salire gli aveva fatto scordare di indossare gli scarponi, ma, nonostante tutto, aveva camminato sicuro su quel sentiero sassoso, mano nella mano con la figlia. Ogni volta che avevano incontrato un cane, l’aveva dovuta prendere in braccio, perché lei ne aveva paura, soprattutto se erano grandi e neri. Mentre camminava la sua mente viaggiava veloce e quella era una delle cose che più amava delle escursioni: il silenzio rotto solo dal respiro, il cuore che reagiva alla fatica e pompava il sangue nelle vene, il cervello che, lontano dalla confusione del quotidiano, rimetteva le cose nella giusta prospettiva. Come con la questione del cane: la moglie aveva ragione a volerne prendere uno, avrebbe fatto bene a tutta la famiglia, ma era un impegno troppo gravoso per loro. Durante l’altra gita in montagna avevano cantato in auto diverse canzoncine per bambini, storpiandole e ridendo come sciocchi, un raro momento di gioia in una vita faticosa e difficile da spiegare ad un bambino. Il piccolo aveva cantato «Vogliamo avere un cane» e la moglie, perfidamente, lo aveva registrato e da allora usava la canzone come suoneria del telefono in modo tale che quel piccolo, grande desiderio del figlio fosse sempre lì, sospeso tra di loro.

La moglie ed il figlio lo precedevano, camminavano veloci, però c’era qualcosa di strano nel bambino: spesso rallentava, sembrava sofferente, il passo zoppicante. Li teneva d’occhio, mentre le loro teste sparivano e ricomparivano tra i pini mughi finché li aveva persi di vista dietro una curva. Quando erano ricomparsi nella sua visuale, erano entrambi seduti su una roccia e senza scarponi. Non solo, la moglie si stava togliendo un calzino e lo stava porgendo al figlio. Si era avvicinato rapido senza mai lasciare la mano della bambina, voleva capire cosa stesse succedendo: il piccolo aveva le vesciche ai piedi perché aveva indossato dei calzini non adatti a un’escursione in montagna e la moglie si stava togliendo i propri per passarli al bambino che era mortificato. Testa basse, spalle incurvate, labbro tremante, era prossimo al pianto.

«Scusa, papà…»

****

Quelle due parole gli rimbombano nella testa da quel momento, anche adesso, mentre scendono piano piano in fila indiana, con la bambina che piange ed urla insofferente a quell’inutile attività a cui la sottopongono i genitori. Per fortuna il vento si è placato, le nuvole si sono lentamente allontanate. «Scusa, papà…» Come se fosse il bambino a doversi scusare. Lui e la moglie parlano spesso del futuro della bambina, della preoccupazione per quello che succederà a quella bellissima ed incomprensibile creatura quando loro non ci saranno più, del loro desiderio di lasciare al figlio il diritto di scegliere del proprio futuro, ma forse stanno fallendo. La preoccupazione per ciò che avverrà dopo di loro alla bambina, probabilmente li sta portando a fare pressioni inconsapevoli al figlio, tanto che questi ha confessato al nonno che non si sposerà mai perché nel suo destino ci sarà l’accudimento della sorella.

«Eh, no, figlio mio!» rimugina. «Scusa tu per la nostra inadeguatezza, per il nostro dolore mal celato, per il poco tempo che ti stiamo dedicando.»

Mentre la bambina assorbe tutte le loro energie, il bambino sta crescendo da solo: è molto responsabile, troppo e sempre ansioso di fare la cosa giusta. Nel suo piccolo mondo fanciullo, l’errore non è contemplato e quando accade è vissuto come un fallimento personale. Il bambino ha deciso che deve essere il miglior figlio del mondo per non dare altre preoccupazioni ai genitori ottenendo paradossalmente l’effetto opposto. Un bambino è un bambino, perdio! Un bambino deve poter sbagliare ed imparare dai propri errori, essere egoista e non voler condividere le patatine con la sorella, litigare con la peste di casa per il possesso del telecomando. Suo figlio, invece, accontenta la sorella in tutto ed è sempre accondiscendente pur di non creare ulteriore tensione in famiglia. Proprio come era successo prima al rifugio.

****

Quando erano ripartiti, dopo lo scambio di calzettoni, mancava ormai poco alla cima. Per convincere la bambina a continuare quell’estenuante salita, le avevano promesso che, appena arrivati al rifugio, avrebbero mangiato una Wienerschnitzel. Contavano alla rovescia per scandire il tempo e continuavano a parlare della bistecca impanata.

 «Sessanta… Cinquantanove… Cinquantotto… Cinquantasette… Dài, che quando arriviamo mangi il pollo… Cinquantasei… Cinquantacinque… Cinquantaquattro… Coraggio, manca poco, dobbiamo solo arrivare là, dall’altra parte del lago… Cinquantatré… Cinquantadue… Cinquantuno…»

Numeri scanditi lentamente, dilatati nel tempo di un’ascesa apparentemente infinita.

Purtroppo al loro arrivo avevano scoperto che la cucina era chiusa e che potevano scegliere solo taglieri di affettati o dolci tipici austriaci. La piccola, rigida e selettiva quando si trattava di cibo, ovviamente non aveva mangiato nulla, accontentandosi di sbocconcellare il pane preso al paese, ma ormai un po’ stantio. Lo sguardo imbronciato, le manine agitate, continuava a esprimere il suo disappunto in un eterno vocalizzo stereotipato. Il bambino, invece, per non creare problemi, aveva deciso di mangiare un po’ di prosciutto: aveva capito che lui era stanco e arrabbiato per non aver potuto mantenere la promessa fatta alla figlia. Stranamente la moglie non aveva voluto mangiare nulla, già in ansia per la discesa. Accidenti a lei, a quel dannato vizio di correre sempre troppo avanti, di non pensare mai al domani, sempre dieci passi avanti a lui nelle preoccupazioni!

Erano rimasti poco al rifugio, perché, oltre le finestrelle ornate di gerani, avanzavano minacciose nubi grigie. Si erano infilati nuovamente i giubbotti ed avevano iniziato la discesa tra le folate della montanara e le urla della bambina, tradita e ormai priva di motivazioni a scendere da quella montagna, finché si erano fermati su una roccia piatta a cercare un po’ di riparo. Le gambe rigide, i piedi fuori controllo, la mente occupata a valutare attentamente il percorso meno pericoloso, la discesa si stava rivelando davvero impegnativa.

****

Sono arrivati al limitare del bosco, non manca molto, il sentiero impervio è finito: il padre tira un respiro di sollievo. Anche questa volta ce l’ha fatta, lo sapeva che sarebbe andato tutto bene. È vero, hanno faticato più del solito, ma insieme ce l’hanno fatta. L’ultimo tratto è facile, letteralmente una passeggiata immersa nelle calde tonalità del rosso e dell’arancio con cui si veste il bosco in questa stagione. Si sente così bene adesso, che prende la figlia e se la carica sulle spalle. La moglie ed il figlio arriveranno, sono a qualche tornante di distanza, non li hai mai persi di vita: lei precede il bambino, si assicura che sia sempre in posizione di sicurezza e lo aiuta a scendere nei tratti più difficili, ma sono lenti, troppo lenti per lui che ora scende leggero, con la bambina che gli poggia la guancia sulla testa.

Sono ormai un’unica figura che in controluce si stringe in un abbraccio di indissolubile amore.


 

Una volta raggiunti il marito e la figlia al rifugio a valle, la madre si siede su di una panchina al sole, si toglie gli scarponi e si massaggia i piedi doloranti. I figli stanno salendo e scendendo dallo scivolo in un prezioso quanto raro momento di unione fraterna, il marito è all’interno ad ordinare. Lei stende le gambe sulla panchina, si gode quelle ultime azzurre giornate di ottobre, il cielo ora terso. L’eterna golosa ha finalmente fame, lo stomaco rilassato dopo la tensione della gita: in certi momenti aveva avuto paura di non farcela, non riusciva a controllare i piedi, ma cercava di mantenere un aspetto sereno per il figlio. Il ginocchio destra era gonfio e dolorante, ma, per sdrammatizzare, cantava stonata:

«Lo sai che la Tachipirina 500 / Se ne prendi due diventa mille…» ¹

Il bambino rideva e lei, nonostante tutto, era felice.

La cameriera le porta il the caldo e lo strudel con la panna. Mescola lo zucchero lentamente in senso orario, la mente sgombra da fastidiosi pensieri e beata da quel raro momento di normalità famigliare. Prende la forchetta e dosa una piccola porzione di strudel e panna, se la porta alla bocca ed assapora lentamente. In quel momento arriva la bambina, la sua piccola me, il suo specchio, e comincia a tirarla per un braccio. Si sfidano con lo sguardo in un silenzioso scontro di volontà.

«Vieni, andiamo via! Basta per oggi! » dice quello della piccola.

«Aspetta! Sto mangiando! » ribatte quello della madre.

Errore fatale di cui si rende conto troppo tardi: la figlia strizza gli occhi, sorride furbescamente e con un colpo secco della mano fa cadere il piatto sull’erba.

Lo sguardo della piccola peste è ora trionfante, mentre la madre rassegnata si alza e, guardando il marito, scuote la testa mormorando: «Mai una gioia! »

Si guardano negli occhi e scoppiano a ridere: la vita li mette quotidianamente a dura prova, spesso sono in disaccordo, ma quegli istanti di complicità ritrovata rendono il loro viaggio più lieve, quasi come una passeggiata nel bosco.

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Foto del Lago di Volaia tratta dal sito TurismoFVG

 


…¹ Calcutta, “Paracetamolo”

Il mondo intorno a noi · La famiglia "autistica"

Bambini

Davide è neurotipico. Ariel è autistica.

Davide ha gli occhi scuri cinesi. Ariel ha gli occhi chiari un po’ meno cinesi.

Davide fa autostrade di automobiline. Ariel non ha mai messo in fila nulla, nemmeno i vagoni del trenino dell’Ikea.

Davide conosce la geografia come io conosco un vasetto di Nutella. Ariel sa scovare la App di Youtube ovunque e se è disinstallata va su Chrome, digita Y e lascia che cookies e cronologia facciano il loro lavoro.

Davide gioca a calcio. Ariel insegue Baloo con lo scatto di Bolt.

Davide protegge Ariel da tutto e da tutti. Ariel non ama farsi proteggere.

Davide è un grande amico, ma ha pochi amici. Ariel è una pessima amica, ma ha molti amici.

Davide è sempre pronto a lottare per i suoi ideali. Ariel è sempre pronta a lottare per 10 minuti con il tablet.

Davide ama le Chicken McNuggets, ma le cede volentieri a sua sorella. Ariel ucciderebbe suo fratello per una crocchetta e suo padre per una Coca.

Davide a maggio farà la Prima Comunione. Ariel non farà mai la Prima Comunione, ma il giorno che la faranno i suoi compagni, noi saremo ad Eurodisney a salutare Topolino, l’unico personaggio che Ariel venera come un dio.

Davide tifa Udinese e questa sì che è fede! Ariel non tifa per nessuno, ma tutti tifano per lei.

Ci sono bambini normali e bambini speciali.

Correggo.

I bambini sono tutti speciali.

Correggo di nuovo.

I bambini sono bambini.

Ecco. Questa è l’unica formula per una reale inclusione: capire che i bambini sono bambini.

Ariel · La mamma "autistica"

Pioggia e sole

L’albero di plastica vicino alla finestra è disadorno. Non ho ancora capito dove collocarlo: è grande, forse troppo per la stanza, ma quest’anno mi merito un Natale ricco di luci, fiocchi, palline, angeli.

Sono stanca, sfinita dalla fatica che quotidianamente devo fronteggiare. No, piccola mia, non è colpa tua, anzi, nel bailamme delle giornate, tu spesso passi in secondo piano.

Non ricordo nemmeno quando ho dormito una notte intera e vivo con un perenne senso di colpa.

Troppi pensieri tristi in questi giorni, troppa rabbia verso tutti coloro che cercano in me un conforto che non sono più in grado di dare. Tuo padre dice che è colpa mia, che scrivendo do un’immagine di forza e positività che non sono mie. Forse ha ragione, ma finora non ho mai negato il mio aiuto o un sorriso. Finora. Adesso, però, devo raccogliere i mille pezzi in cui mi sto sgretolando.

Questa terra arida ha bisogno anche delle mie lacrime per permetterti di crescere: il tuo futuro è una piccola pianta che ha bisogno di amore, acqua e sole. Io sono la pioggia.

L’autismo non è divertente, tu lo sei, tu sei il sole. Le tue facce buffe, le tue coccole, i tuoi sorrisi storti… Potrei passare giornate intere a farti il solletico, a rincorrerti e a sbucare all’improvviso per farti urlare di gioia e spavento.

Stamattina ti guardavi allo specchio e cercavi di sistemarti i capelli scompigliati dal sonno: eri proprio carina, smorfiosa come tutte le bambine dovrebbero essere. Muovevi le manine con grazia e ti guardavi di traverso, uno sguardo critico che riconosco essere mio.

Chissà se ti piaci… Chissà se sei felice…

Tu sole, io pioggia.

Insieme siamo amore. 

Insieme costruiremo il tuo futuro.

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